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 2024  gennaio 15 Lunedì calendario

Ritorno sull ’ Hudson

Chi quell’episodio lo ha seguito (e raccontato) in diretta non può non avere incisa nella mente la voce fredda e perentoria del pilota del volo Us Airways 1549 poco prima di ammarare nelle gelide acque dell’Hudson. «We lost trust in both engines», abbiamo perso il controllo di entrambi i motori, spiega il comandante Chesley “Sully” Sullenberger alla torre dei controllo. Accanto a lui in cabina c’è il copilota Jeffrey Skiles, con cui è appena decollato dall’aeroporto La Guardia di Flashing, porzione settentrionale del Queens, diretto a Charlotte in Carolina del Nord, a bordo ci sono 155 passeggeri più l’equipaggio. Appena in quota l’aereo si imbatte in uno stormo di oche, alcune vengono aspirate dai reattori mettendo fuori uso i due motori, è il temutissimo “strike bird”, che altre vittime aveva mietuto in passato.
L’aereo non può proseguire la rotta, e il pilota deve procedere con un atterraggio di emergenza. La torre suggerisce di tornare a La Guardia, ma lo scalo nazionale è lontano: «Unable», dice gelido Sullenberger. La torre suggerisce due alternative, due scali minori del vicino New Jersey: «Unable» ripete perentorio il navigato pilota. «We are gonna be in Hudson», «stiamo planando sull’Hudson», riferisce Sullenberger dopo aver oltrepassato il Washington Bridge. Agli ospiti di bordo suggerisce un lapidario «tenetevi forte». È la sua ultima frase, la voce si spegne, nei minuti successivi sono le immagini a parlare, quelle dell’ammaraggio dell’Airbus A320-214, una manovra perfetta, da manuale come confermano le immagini che ritraggono la fusoliera appoggiata nelle gelide acque all’altezza di Midtown, mentre equipaggio e passeggeri si radunano pian piano sull’ala del velivolo con le gambe a mollo sino all’arrivo dei soccorsi mobilitati dalla torre di controllo. Il bilancio sarà di qualche ferito, nessun morto.
L’incidente viene subito ribattezzato «Miracolo sull’Hudson» e un funzionario del National Transportation Safety Board (l’autorità per la sicurezza in volo) lo descrive come «l’ammaraggio di maggior successo nella storia dell’aviazione». L’allora sindaco Michael Bloomberg, a caldo, dice che il capitano «sembrava uscito da un film. Prima di scendere, mentre il velivolo stava affondando, è andato su e giù due volte nel corridoio per essere sicuro che era rimasto solo lui». L’ex presidente Barack Obama lo vuole alla cerimonia di inaugurazione, quella storica del suo insediamento alla Casa Bianca, giunta dopo la mitica notte dell’8 novembre a Chicago quando vince contro il repubblicano John McCain. L’inquilino uscente della Casa Bianca George W. Bush lo chiama personalmente per congratularsi. Diventa un eroe, idolatrato dai suoi passeggeri, i 155 sopravvissuti. Era il 15 gennaio 2009. Quella storia diventa una pellicola hollywoodiana, “Sully”, diretta da Clint Eastwood, con protagonista Tom Hanks, e al suo fianco Aaron Eckhart e Laura Linney. L’anno dopo il veterano pilota con un passato militare, a 59 anni compiuti, indossa la divisa per l’ultima volta, senza fare troppo rumore. L’ultima tratta è da Fort Lauderlade, in Florida, a Charlotte, stessa destinazione del volo 1549.
Nonostante la pensione oggi, quindici anni dopo, il mito di Sullenberger non è tramontato specie agli occhi di chi è stato salvato dalla sua esperienza e dal suo istinto gelido. Ma dal cuore grande perché il comandante non ha mai dimenticato i suoi passeggeri, incontrandoli periodicamente. Come giovedì scorso quando, in occasione dei tre lustri dall’evento, i protagonisti si sono dati appuntamento a una manciata di isolati dall’ammaraggio, al Paley Center for Media di Midtown. Ed è stata l’occasione per tornare a confrontarsi su quel giorno, riflettendo su come sono trascorsi questi 15 anni con la constatazione che i ricordi del volo e le emozioni ad esso associate rimangono vividi. Negli anni i passeggeri, i membri dell’equipaggio e i primi soccorritori hanno raccontato di come l’impatto di quell’evento abbia loro cambiato la vita. «Pensavo che sarebbero tutti morti», ricorda Patrick Harten, uno dei controllori del traffico aereo testimone dell’incidente. «Non avevo dubbi, stavo per lasciarci la pelle», spiega la passeggera Denise Lackey. Dal “bird strike” all’atterraggio sono trascorsi circa 4 minuti, istanti di durata siderale, ma con lieto epilogo. «È stato qualcosa di traumatico ma alla fine pieno di speranza – spiega il comandante Sully – per questo abbiamo un legame che sentiamo ancora»Francesco Semprini
***«Non direi che mi ha cambiato, ma mi ha fatto davvero apprezzare il valore dell’addestramento che seguiamo come piloti di linea». Così Chesley “Sully” Sullenberger racconta il suo io dopo il “Miracolo sull’Hudson”. Aveva iniziato come pilota militare, Sully, diplomato nel 1973 alla Air Force Academy e poi istruttore nelle basi del Pacifico. Nel 1980 la prima svolta, lasciato l’esercito, fa il suo ingresso sui voli di linea. Nel 2009 la consacrazione con «l’ammaraggio meglio riuscito della storia».
Dopo la gloria istantanea viene messo sotto inchiesta poiché accusato di poter evitare l’ammaraggio e atterrare. In seguito, decine e decine di simulazioni gli danno ragione. Una situazione che gli crea disagi nel sonno, incubi e altri disturbi sebbene lui diventi un eroe per sempre, tornando a volare, ma per poco, nel 2010 lascia la cloche. I piloti «vorrebbero sempre lasciare la professione in condizioni migliori di quelle in cui l’hanno trovata, ma nonostante gli sforzi di migliaia di miei colleghi questo non è il caso», dice Sully con un po’ di amaro in bocca.
Dopo il “Miracolo” scrive un libro, “Brace for Impcat” (Prepararsi all’impatto), tiene seminari in scuole e università, testimonia al Congresso in materia di sicurezza aerea, viene onorato al Superbowl. È anche coinvolto in una polemica sugli stipendi dei professionisti dell’aria, quasi dimezzati dopo l’11 settembre 2001. Viene nominato ambasciatore Usa presso l’Organizzazione per l’aviazione civile internazionale (ICAO), l’agenzia delle Nazioni Unite, e un museo viene intitolato in suo onore: il Carolinas Aviation Museum ora conosciuto come Sullenberger Aviation Museum. Di quell’episodio ricorda i tempi, c’era la grande crisi finanziaria del 2008, un periodo buio, mesto di forte pessimismo.
«Era un momento in cui avevamo bisogno di una storia che ci desse speranza – chiosa il comandante -. Penso che ce l’abbia data l’avercela fatta, regalandoci quella visione di speranza per l’umanità e per il futuro a cui possiamo aggrapparci anche nei momenti difficili». fra. sem. —
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«In seguito a quell’evento si è fatta largo in me l’urgenza di stilare una lista dei desideri e di perseguire in modo aggressivo ogni elemento dell’elenco. Tutte le voci riguardavano esperienze, ma non ricchezza o trofei». Così Barry Leonard, 70 anni, uno dei 155 passeggeri del Miracolo sull’Hudson, in seguito al quale ha riportato la rottura dello sterno, racconta della sua seconda vita. «Mio figlio ed io abbiamo scalato il Kilimangiaro e fatto dei safari. Uno dei momenti più belli è stato guidare la jeep su alcuni sentieri di mucche e capre fino a una scuola da qualche parte in Tanzania. Avevamo contribuito a donare una biblioteca ai bambini della tribù Masai. Lo sguardo sui loro volti è stato il punto più alto di questo viaggio e della mia vita».
Leonard e la figlia percorre parte del Cammino di Santiago in Spagna, per lo più soli, un viaggio spirituale e di legame per entrambi. Con la moglie rimane per diversi giorni in un santuario degli elefanti, vivendo a contatto nell’ecosistema di quei mammiferi, suggellando l’amore del sopravvissuto per gli elefanti stimolando la necessità di mobilitarsi per proteggerli.
«Restituire è diventato un mantra per la mia vita». Un modo per raggiungere questo obiettivo è stato organizzare la riunione annuale a New York City per i passeggeri, l’equipaggio e i primi soccorritori. «Un’occasione per parlare di come il volo 1549 continua ad avere un impatto sulle nostre vite, come solo noi sappiamo – racconta -, ma anche un modo per brindare alla vita e a coloro che amiamo».
Con la famiglia si reca anche in India per incontrare il Dalai Lama, un viaggio per la cui preparazione ci sono voluti cinque anni. Vince una delle sue più grandi paure saltando da un aereo a circa 3.600 metri di altezza. «L’unica altra volta in cui sono saltato da un aereo è stato da un metro e mezzo sopra il fiume Hudson dice con sarcasmo -. Allora le mie possibilità di sopravvivenza erano molto inferiori».
«Il motivo per cui posso dedicare tanto tempo alla mia lista dei desideri è che dopo aver sfiorato la morte ho promesso a me stesso di andare in pensione prima di compiere 65 anni. Ci sono riuscito più di sei anni fa». fra sem. —
***Vincent Lombardi è al timone del traghetto “Thomas Jefferson” della Ny Waterway che ha appena lasciato il molo 79 sul West Side di Manhattan, poco prima delle 15,30 del 15 gennaio 2009, diretto a Weehawken. Ed ecco che davanti a lui appare il volo Us Airways 1549 appena planato sull’acqua. «Lo spettacolo era surreale», dice pur mantenendo lucidità.
Il capitano dirotta il traghetto verso il punto di ammaraggio dell’aereo di linea. «Dovevo mantenere la calma ma agire in fretta», racconta Lombardi anche lui presente alle riunioni del gruppo “Miracolo sull’Hudson”. La sua imbarcazione raggiunge l’aereo per prima. «Ho semplicemente adempiuto al mio giuramento di marinaio. I sopravvissuti erano già ricoperti d’acqua gelida per trenta centimetri, quel giorno c’erano meno sette gradi». Due marinai tirano giù una scala e lanciano delle cime in acqua affinché le persone potessero afferrarle. Due passeggeri del traghetto si offrono volontari per raccogliere i giubbotti di salvataggio da lanciare nel fiume.
Lombardi e il suo equipaggio recuperano 56 passeggeri che una volta raggiunta la riva, vengono portati negli ospedali vicini. In totale, 14 traghetti della New York Waterway hanno salvato 143 passeggeri e membri dell’equipaggio, quel 15 gennaio 2009 mentre la Guardia Costiera e i Vigili del Fuoco ne hanno salvati altri 12. È riconosciuto come il salvataggio marittimo di maggior successo nella storia dell’aviazione.
Quando tutto si conclude, e pensa che sia ora di rilassarsi, il suo capo lo riprende: «Devi finire il tuo turno». «Cosa? Ho pensato che saremmo usciti e avremmo preso un drink, perché avevo bisogno di qualcosa di forte». Quel drink Lombardi se lo potrà godere anni dopo assieme a un’altra ricompensa, interpretando sa stesso nel film “Sully”.
Oggi tra i suoi amici annovera alcune delle persone che ha salvato, tra cui Doreen Welsh, una delle assistenti di volo, che è finita sul suo traghetto con un grosso squarcio sulla gamba. «Non mi metto su un piedistallo, non è che stavo salvando il Paese – dice con modestia -. Mi considero solo fortunato di far parte di un vero miracolo».fra sem. —
***A pochi è capitato di morire e rinascere in 208 secondi. A loro è capitato. Ai 155 passeggeri del volo US Airways 1549, ammarato nell’Hudson in quello che fu definito un «miracolo». Poteva essere un disastro, ebbe un lieto fine grazie alla manovra del capitano pilota Chelsey “Sully” Sullenberger, l’eroe che diventò poi il protagonista del film di Clint Eastwood con Tom Hanks.
Cosa si pensa nei 208 secondi che trascorrono dall’impatto di uno stormo di uccelli a un ammaraggio?
Pensi di morire. E poi pensi tutto il resto. E poi, cosa pensi, quando non sei più morto? Come ti cambia la vita, riceverne una in omaggio? Solo nei miracoli si resuscita o si sopravvive all’inimmaginabile.
La morte arriva sempre quando meno te l’aspetti. È una grana con cui non ci piace fare i conti. Eppure tutti, prima o poi, abbiamo avuto un incontro ravvicinato: c’è quel momento, quando la tocchi e ti sembra così vicina, che cambia tutto. Può capitare nello studio di un medico, che ti dà la notizia nefasta e poi invece non lo era. E allora il sollievo è tale che quando ti chiudi la porta alle spalle e torni a vedere il cielo, ti sembra davvero di nascere per la seconda volta.
L’aria è più buona, la gente che incontri per strada ti sembra tutta bella e simpatica, il caffè ha un sapore meraviglioso. Può capitare dopo un’incidente, quando ti risvegli e hai pensato che saresti morto e invece no. Sei ancora lì, a combattere tra i vivi. Ma adesso sei più vivo di prima. I racconti di chi era morto e poi invece non lo era, sono sempre viaggi in un mondo parallelo, dove si tocca il senso più vero e profondo della vita (e quindi della morte).
Tutto questo i sopravvissuti di un ammaraggio come quello di Sully l’hanno provato insieme. Potevano essere 155 cadaveri ripescati dalle gelide acque dell’Hudson in una fredda mattina del gennaio di quindici anni fa. In quei 208 secondi, tutti su quell’aereo hanno pensato di morire. Lo hanno pensato insieme. E poi sono sopravvissuti insieme. Si può capire che le loro vite siano rimaste legate. Ci sono dolori che si vivono collettivamente. Ci sono traumi che hanno bisogno di una cura collettiva. Perché anche morire e rinascere in 208 secondi è – a suo modo – una forma di trauma. Positivo, certo. Ma qualcuno può anche aver pensato di non meritarsela, quella seconda chance. E qualcuno può aver pensato di cambiare tutto, che questa seconda vita avuta in omaggio andava vissuta meglio. Passeggeri, membri dell’equipaggio e i piloti, Sully incluso, sono rimasti in contatto. Hanno continuato a vedersi e raccontarsi le loro vite di scorta, le nuove vite che pensavano di aver perso. Quel giorno è stato uno spartiacque, tra il prima e il dopo. Per loro è come un compleanno collettivo, il giorno della seconda nascita, ed è molto umano – anche molto americano per la verità – rivedersi e raccontarsi, continuare a tenere insieme i fili di quelle vite che si sono intrecciate loro malgrado. Rievocare l’evento è una cura, darsi conforto l’un l’altro, un processo di terapia collettiva, nel quale condividere i ricordi e le emozioni uniche di quei 208 secondi. Solo i protagonisti di un miracolo posso capire cosa significa davvero essere dei sopravvissuti e quanto valore abbiano le loro seconde vite. Caterina Soffici