Tuttolibri, 14 gennaio 2024
Il viaggio di Bianciardi in Barberìa (o Maghreb)
Se a suo tempo non avesse avuto committenti quasi esclusivamente religiosi, forse Michelangelo Merisi da Caravaggio non avrebbe dipinto così tanti soggetti sacri. Dicendo così siamo nell’ordine delle probabilità, è un’ipotesi che si fonda sul temperamento non propriamente pio che i biografi attribuiscono a quel grande. L’ordine delle probabilità inclina invece verso quello delle certezze a proposito del viaggio di Luciano Bianciardi in Barberìa, terra di bèrberi già considerati bàrbari, meglio nota come Magreb (o Maghreb): “Il Magreb, dunque, è la Barberia” scrive Bianciardi, a conclusione di una delle prime digressioni del suo resoconto di viaggio: «Se c’è andata tanta gente, possiamo andarci anche noi».Ora, il «poter andare» non appare proprio come una spinta imperiosa, un propellente di gagliardia incontrastabile. Non è il dover andare anche se fischia il vento e infuria la bufera; non è neppure il voler andare, l’«ardore» dell’Ulisse dantesco quando mise sé «nell’alto mare aperto». Si può insomma pensare che se nel 1968 L’Automobile, rivista di afferenza tematica evidente, non gli avesse chiesto un reportage dal Nord Africa Luciano Bianciardi se ne sarebbe rimasto volentieri a Rapallo, dove oramai risiedeva da qualche anno. Sull’andare a vivere in Liguria c’è un suo testo del 1968 (Perché a Rapallo?, in Tutto sommato. Scritti giornalistici 1952-1971, ExCogita, Milano 2022, p. 79), dove si legge un dialogo fulmineo: «Al sabato arrivano gli amici da Milano. Non ti muovi?» chiedono. «No, ragazzi, non mi muovo»”.L’italianista Erica Bellia cita questo passaggio nei suoi Appunti per una teoria dell’anti-viaggio dedicati appunto al libro di Bianciardi sulla Barberìa (in Un viaggio realmente avvenuto. Studi in onore di Ricciarda Ricorda a cura di Alessandro Cinquegrani e Ilaria Crotti, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2019) e lo impiega a complemento di un’altra citazione bianciardiana assai eloquente: «E poi viaggiare secondo me non serve a nulla, ai giorni nostri, non ci impari proprio niente. Anche uno che abbia ambizione di scrivere, non è che viaggiando apprenda qualcosa di nuovo, o trovi argomenti da raccontare. Al massimo potrà scrivere qualche articolo di giornale ma, se è una persona seria, tornando si guarda bene dal mettere sulla carta quello che ha visto, o creduto di vedere. Io per esempio ho un amico scrittore, che una volta andò in aereo sino a Pechino, nel Catai, come dicevano gli antichi. Eppure, siccome è uno scrittore serio, tornando non si è mica messo a parlare dei cinesi! Al contrario, ha continuato a parlare dei cecinesi, e fa bene, perché quelli li conosce davvero» (in La vita agra, ExCogita, Milano 2013, p. 270; l’amico sarebbe Carlo Cassola). Bellia contrappone l’ipotesi dell’anti-viaggio a quella di «Bianciardi, narratore naif» avanzata da un altro illustre glossatore bianciardiano, Bruno Gambarotta, che si è soffermato specialmente a quei riferimenti analogici che a cose già viste, a cose di casa, fanno di continuo Bianciardi e i suoi compagni di viaggio (in particolare la trentenne finlandese Pitta). Già a lui stesso, a Bianciardi, la storia della Barberìa, dei bèrberi e dei bàrbari fa tornare in mente la via dei Bàrberi (o Barbéri?), dove a Grosseto stava un bordello, anzi due, «oggi trasformati in casa di civile abitazione». Ma ciò è da attribuire al peculiare nomadismo linguistico di Bianciardi, a quel suo voluttuoso vagabondare tra modi di dire e curiosità, lo stesso che una volta lo portò a compilare la formazione della Nazionale dei calciatori che avevano come nome un verbo coniugato (ricordo il portiere Pianta, da «piantare», e Mazzola, come voce del verbo «mazzolare»). In Algeria Bianciardi prende in giro la Pitta a cui troppe cose algerine ricordano la Finlandia (canti, colori di coperte, montagne) e poi però ammette subito che a lui stesso un certo panorama ha ricordato Volterra. La sua compagna Maria Jatosti, in uno scorcio della periferia di Tripoli, ha rievocato Ostia nel 1930, mentre a Luciano pareva sempre il 1930, però a San Rocco, oggi Marina di Grosseto. Maria però batte tutti perché arrivata a Fez assicura di ravvisare somiglianze decisive con la natia Garbatella.Se qualcosa «mi ricorda quello che già sapevo», dice Bianciardi, cosa sto apprendendo? Quel che per Gambarotta è naïveté, per Bellia è una strategia analogica per riflettere criticamente sulle effettive possibilità conoscitive del viaggio. Non voglio – e volendo non ne avrei i mezzi- per prendere posizione di fronte a questa alternativa. Mi limito a rallegrarmi per aver già dall’inizio introdotto la categoria della digressione, croce delle conversazioni con interlocutori prolissi e delizia di quelle con interlocutori sapienti, nonché risorsa letteraria preclara, da Omero a Sterne e di lì in avanti. Digredire è un modo di progredire: andare avanti, ma di lato, scostandosi da un tracciato, come vuole del resto il principio del ghirigoro stabilito da Ennio Flaiano già dieci anni prima del viaggio di Bianciardi: in Italia «la linea più breve tra due punti è l’arabesco». Eh sì, perché invece che ghirigoro Flaiano diceva proprio arabesco.Come ente di ragione, la digressione appartiene al vasto campo analogico che mette in relazione il percorso fisico e il discorso verbale, e il viaggio in Barberia di Bianciardi comprende molte digressioni sia che lo intendiamo come evento (quindi cambi di rotta sul territorio) sia che lo intendiamo come libro che dà resoconto dell’evento (cambi di rotta della scrittura). Soltanto che la sua mente e la sua penna viaggiano più veloci del suo corpo, nella Fiat 125 che trasporta i cinque della sua comitiva («poco meno che normali») dalla Libia al Marocco e poi indietro in Algeria. L’ennesima mosca lo infastidisce e lui, mentre la scaccia, si chiede: «Ma quand’è che abbiamo smesso, noi europei, di sopportare le mosche?»; poi si risponde anche, perché a lui non basta l’euristica della domanda: con l’introduzione del ddt. Maria e la Pitta vedono laghi nel deserto e a lui scappa una lezione sui miraggi (ha e sa di avere una vocazione didattica che porterebbe alla pedanteria, se l’eloquio brillante non la riscattasse), si arresta alla differenza tra miraggio inferiore e superiore e alla loro possibile compresenza, per poi scoprire che non si trattava neppure di miraggi ma di un’altra forma specifica di inganno ottico, causato da certi depositi salini. Sino a che non gli dà l’occasione di metterci bocca e lingua, tutta quella natura chiaramente l’annoia: infatti avvicinandosi a Tunisi con Maria esulta alla comparsa di ciminiere, cementifici, Citroën e grattacieli.La sua pedanteria digressiva però raggiunge l’apice in materia linguistica. Dice che l’auto assegnata dalla Fiat è ben «rodata». Lui non ha manco la patente, di cosa sia il rodaggio non può importargli molto; gli interessa però l’illiceità della formazione della parola. Si può formare una parola italiana partendo da una radice non italiana? Non avrebbe mai conosciuto in vita il verbo «bannare» (fra i millanta omologhi) quindi riteneva di no; riteneva inoltre che «rodare» venisse da «road» (sbagliava, viene dal francese «roder», rodere, levigare). Allora inventava che bisognerebbe dire che una macchina è «avviata», ma non si può perché il verbo esiste già in altro senso; e allora propone: «stradata» o, esagerando, «incignata (dal greco «encainizo», inaugurare; «incignare», «incignato» esistono già in Pascoli e in Pirandello). Occasione questa per un elogio esplicito della digressione, cioè dello scarto, che non è soltanto sviamento ma anche motore dell’evoluzione: «altrimenti noi oggi parleremmo ancora latino, no?».Gli ottomila chilometri su e giù per il Magreb hanno occasionato quantità di analoghe scintille. Una chiosa sui generi delle auto («il» Fiat millecinque ma «la» 124) e su quelli delle squadre di calcio («il» Milan, «la» Roma, «il» Venezia, «la» Triestina). Il semaforo viene chiamato «rouge» e lui annota che il nome attribuisce una parte della funzione per il tutto, come già l’ascensore che serve non solo per salire ma anche per scendere; poi fa un altro passo e ammette che il rosso è per il semaforo, come il salire per l’ascensore, la funzione predominante. Cantano in auto la hit dell’estate Vengo anch’io! No, tu no! e lui approfondisce: in lingua araba «vengo anch’io» si può dire in due modi: «ena eda ngi» o, più forbitamente, «ngi ena aida». Esulta quando Maria scopre il fiume algerino “Oued Addad”, che praticamente si può tradurre «fiume Adda» e parla subito di «Lorenzo» Tramaglino che passa l’Adda per entrare nella terra dei «baggiani» (nomignolo bergamasco per i milanesi). Al figlio Marcello, decenne, regala un tagliacarte, quello non sa che farsene, ciò che porta il padre a pensare alle cose e alle parole desuete: «libro intonso», «carta assorbente», «scaldino». Parla con un gentile cameriere poliglotta di Algeri che distingue chi «parla cristiano» da chi «parla moro» e gli torna in mente che il concetto di rottura implicito nel «breakfast» (ma sarà questo parlare anglicano?) è presente anche nel bel verbo toscano «sdigiunarsi» e che in Toscana il bacon si chiama «carnesecca» o «rigatino». Poi ricorda che il cameriere del ristorante si occupa delle tavole e non delle camere e quindi dovrebbe essere chiamato più propriamente «tavoleggiante».Tutto questo digredire, tante sovrapposizioni di significanti e significati al mero traslarsi dei corpi, cosa insegna? Alla fine Bianciardi ammette che al primo viaggio, quello fisico, se ne è affiancato un altro, un viaggio nell’infanzia: l’infanzia delle cose ricordate, l’infanzia delle cose desuete in Italia ma ancora vive in Barberìa, ma anche l’infanzia presente, impaziente e spesso indifferente al viaggio del figlio Marcello. E poi capisce anche di aver fatto un terzo viaggio, nella libertà, poiché il ritorno a casa è anche il ritorno agli impegni: «libri da tradurre, libri da scrivere, libri da leggere, libri da illustrare...». Infatti lui e Maria sono anche due traduttori e allora forse quel tornare da Fez alla Garbatella non era né un modo per negare di essere a Fez né un modo per passare tutta la vita mentale alla Garbatella, ma appunto un nuovo nesso stabilito fra due punti del mondo distinti ma ora in relazione. Una traduzione: e «traduzione» è un altro dei termini della galassia analogica tra percorso e discorso.Ne valeva la pena? Un fondo di scetticismo rimane. «Voglio dire, sono un sedentario, un abitudinario» dice Bianciardi nella prima pagina di questo suo Viaggio.Se ora ricordate il dialoghetto proveniente da Perché Rapallo?, che ho riferito qui sopra alla fine del primo paragrafo, troverete forse curioso il modo in cui Carlo Emilio Gadda descriveva sé stesso nella bandella del libro I viaggi la morte, uscito in prima edizione da Garzanti nel 1957. È lo stesso libro che, nel saggio che gli dà il titolo, parla dei viaggiatori e dei «sedenti» («Coloro che non fanno del viaggio un fine a sé») e trova che questi ultimi«Sognano sognando, ma vivendo vivono», mentre i viaggiatori «Sognano vivendo e così non vivono. La loro vita si dissolve nella illusione di poter conoscere tutto; –ma l’io morale è un feroce inibitore, un meticoloso limitatore, un accanito e formidabile negatore: chi vuol “provare tutto”, finisce col non provare il più importante, che è la “sua” vita». Parole, queste, che nel caso di Bianciardi potrebbero avere un retrogusto assai amaro.Per una combinazione ben apparecchiata dal caso, ho riletto negli stessi giorni il Viaggio in Barberia e I viaggi la morte e sono incorso per l’ennesima volta nella chiusa della leggendaria nota biografica predisposta da Gadda per quel suo libro, nel 1957: «Vive nella capitale della Repubblica a quattordici chilometri dal centro, in una casa di civile abitazione, confortato nottetempo dagli ululati dei lupi e lungo tutto il giorno dai guaiti di copiosissima prole, non sua, ma egualmente cara e benedetta. «Che cosa fai tutto il giorno?» gli chiedono le persone indaffarate «non ti muovi mai?» «No, non mi muovo».Anche a Bianciardi piaceva stare a casa, magari a leggere Gadda. E su questo non gli darei torto.