Tuttolibri, 14 gennaio 2024
Lettere tra Zelda e Fitzgerald
Si cresce, i libri si mettono da parte, e tutto quello che Francis Scott Fitzgerald e Zelda Sayre hanno fatto alla nostra idea d’amore muta un po’ di significato, ingiallendosi come l’abito nuziale di una Miss Havisham rimasta per sempre nubile in una casa vittoriana che cade a pezzi. Due cose, alla distanza, che possono far pensare a queste due persone nel loro persecutorio, affannato e crudelmente romantico sodalizio. La prima viene da Il regno d’inverno, un film di Nuri Bilge Ceylan del 2014 ispirato a Mia moglie di Anton Checov. Un ex attore vuole scrivere una storia del teatro turco nel suo rifugio di lusso in Anatolia, riceve visite, litiga con la giovane moglie che scalpita e si sente in ostaggio. A un certo punto il protagonista veramente pieno di sé dice: «La frase più angosciante da sentirsi dire non è “Non ti amo più”, ma “Ho scritto un libro anch’io”.» Come fanno a sopravvivere due scrittori che si sono amati, forse lo fanno ancora, ma hanno soprattutto bisogno di continuare a scrivere, spesso a discapito dell’altro? Facile che lei muoia bruciata e lui devastato da alcol e rimpianti. L’altra frase viene da Heroines di Kate Zambreno, un saggio del 2012 purtroppo mai tradotto in Italia, in cui Zambreno ripercorre in maniera ibrida le vicende delle mogli e amanti «tossiche» del modernismo, da Vivienne Eliot a Jean Ryhs a Zelda Sayre in Fitzgerald. Parla di Zelda che nel suo manicomio di lusso sente la voce perduta di Fitzgerald quando dice: «Ho perso la donna che ho messo nei libri, l’ho uccisa!» Forse, scrive Zambreno, «la malattia di Madame Bovary non è la noia. È essere intrappolata come personaggio nel romanzo di qualcun altro.»Nel saccheggio perpetuo di idee, smorfie, intuizioni e fissazioni maniacali che può essere un matrimonio, al di là delle asimmetrie di potere e di genere, è facile pensare che la malattia dei coniugi Fitzgerald fosse proprio una trappola romanzesca di cui non riuscivano a trovare più la chiave. Un matrimonio in cui, come dice Zelda, «Due cavalli malati potrebbero verosimilmente tirare un carico più pesante di uno da solo», quando ha il dubbio che il marito voglia rispedirla in Alabama e sbarazzarsi di lei per sempre.Ma ogni storia ha un «retro dell’arazzo», espressione usata da Sara Antonelli nella nota di accompagnamento a La parte inventata della vita. Lettere scelte di F. Scott Fitzgerald e Zelda Sayre, un remix di lettere tra il 1930 e il 1940 che ha curato per Feltrinelli. Scorrendo il retro di questo arazzo dedicato alla separazione e alla fine di un matrimonio, in cui editor, amici, dottori e discendenti fanno quasi da coro greco, è inevitabile andare alla ricerca della lettera più struggente, quella che farà intuire l’esistenza di una chiave andata smarrita, rievocandone il dorato scintillio. E allora forse stupirà sapere che una delle lettere più strazianti è in realtà una missiva molto pacata, dotata di un raziocinio quasi cinico che sembra mancare altrove. Quella in cui Fitzgerald scrive alla maestra di ballo di Zelda, Madame Ljubov Ergova (di cui Zelda è innamorata ma senza il sesso), per spiegarle che sua moglie non riesce a guarire anche perché è ossessionata dall’idea che stando in clinica sta perdendo tempo e saltando troppe lezioni di danza. I medici vogliono sapere quali chance c’erano di diventare una ballerina di prima categoria prima che la paziente si ammalasse, e allora il marito fa tutta una serie di domande su questa possibilità, sul talento «reale» di una moglie che vuole ballare ancora, a quella età: una moglie di 27 anni dall’incarnato incantevole ma impuro, che ha molti talenti ma zero ambizioni.Zelda perora la causa della danza sostenendo che il marito ha compassione per chi ha iniziato tardi nella vita, e qualche pagina dopo si scopre che in teoria è stato proprio lui a incoraggiarla a ballare, per farla smettere di bere, mentre lui ormai ha preso il vizio e non vuole rinunciarvi, sviluppando un’ontologia alcolica che mescola lagna e poesia a lettere alterne, mentre nelle parole di Zelda l’alcol ormai è solo molestia e nausea.Le lettere di Zelda: piene di immagini e descrizioni, espressive, con una pulsazione sperimentale che frastaglia e a volte annulla la colata lavica delle parole di suo marito. Alcune sono tendenzialmente magnifiche, tanto che nel montaggio, quando subito dopo averla letta troviamo Fitzgerald che dice a qualcuno che la moglie sta nel cuore nero e profondo della sua follia e lui fa di tutto per salvarla, quasi non gli crediamo. È difficile pensare che una donna capace di scrivere una lettera così dolce per la morte del padre di suo marito, di cui fa anche un mirabile ritratto, sia completamente andata. Le lettere di Fitzgerald, quasi a prescindere dall’interlocutore: innamorate del proprio giro di frase, della propria desolazione, a tratti una lamentela commovente ma pur sempre lamentela, a tratti stilettate che sono letteratura, una bibbia della rovina, quella definitiva. Le lettere rintoccano tra loro e rievocano due ragazzi che un tempo venivano cacciati dagli alberghi perché troppo giovani e allora si presentavano con una valigia dall’aspetto serio, ma dentro c’erano solo un elenco telefonico, dei cucchiai, e un portaspilli. Referti, recriminazioni, dediche nostalgiche. In tutta questo vorticare di bellezza e dannazione, è assurdo trattenersi durante la lettura per arrivare a piangere quando si legge una frase banale come «Mi manderesti cinque dollari appena puoi?», quando ormai i due protagonisti sono troppo stanchi anche per gli insulti, e diventano quasi amici.Tornando indietro nel tempo: in una digressione su cosa sono stati gli anni in Francia, i quarantamila dollari di spese all’anno, il complesso di inferiorità e il magnifico spreco, Fitzgerald scrive a Zelda: «Tu impazzivi e lo chiamavi genio – io andavo in rovina e lo chiamavo come capitava.» Non è una chiave, ma può bastare.