La Lettura, 14 gennaio 2024
Le targhe di Napoli
Palazzo Donn’Anna è una maestosa quinta di tufo sul palcoscenico del mare di Posillipo. Lì nuotava – «ombra grigia profilata nell’azzurro» – la spigola che apre Ferito a morte, capolavoro di Raffaele La Capria. Lo scrittore trascorse in quella monumentale dimora la giovinezza, poi si trasferì a Roma nel 1950, ma la sua memoria resta legata al seicentesco edificio incompiuto e alla spossante indolenza della «bella giornata», vissuta secondo i riti altoborghesi del dopoguerra. Nessuna targa sul palazzo però ricorda la sua presenza. Del resto, La Capria è morto, quasi centenario, solo un anno e mezzo fa: non è trascorso il decennio necessario ad autorizzare l’apposizione di una lapide commemorativa o l’intitolazione di una strada. Eppure, in deroga a questa norma, a Luciano De Crescenzo è stata dedicata nel 2020 una targa in vicoletto Belledonne, che lo stesso ingegnere-scrittore aveva indicato come la sede più adeguata per ricordarlo, vista la sua fama di latin lover.
Stranezze napoletane, segnali di una memoria collettiva intermittente e svagata. Sono lacunose, per esempio, le tracce di Eduardo De Filippo. Dall’atto ufficiale, il drammaturgo e attore risulta nato in via Vittoria Colonna 3, quartiere Chiaia, salotto buono della città che cela dentro di sé frammenti della Napoli popolare. All’indirizzo che appare sul certificato di nascita di Eduardo oggi c’è un negozio di biancheria fiorentina e nessuna targa. Il portone successivo è quello del palazzo che suo padre, Eduardo Scarpetta, acquistò con i proventi delle sue commedie, insieme alla villa La Santarella sulla collina del Vomero, che ancora oggi reca ben visibile la scritta voluta da lui: «Qui rido io». Come racconta Peppino De Filippo nella sua autobiografia, e come poi ha ricostruito in dettaglio Mario Martone nel suo film, la storia sentimentale di Scarpetta era assai intricata: il drammaturgo e attore ebbe i tre De Filippo, figli illegittimi, da Luisa, nipote di sua moglie Rosa. È possibile che Eduardo sia nato nel palazzo paterno (dove oggi ha sede la Fondazione Eduardo De Filippo) o in un appartamento poco distante. Del resto la targa dedicata a Peppino si trova nella vicina via Ascensione 8, dove evidentemente la famiglia ha abitato per un periodo. Di Eduardo è invece visitabile il camerino, integralmente ricostruito con molti arredi originali, nel teatro San Ferdinando, all’altro capo della città. E la piazza antistante al teatro, che De Filippo acquistò nel 1948, porta il suo nome.
L’altro grande drammaturgo napoletano è ricordato nel corso Vittorio Emanuele, la lunga strada panoramica che taglia Napoli in due: c’è una targa sulla casa dove visse Raffaele Viviani. In questa zona signorile, a ridosso dei brulicanti Quartieri spagnoli, alto e basso si sovrappongono, si mescolano, convivono. E qui il febbrile cantore del popolo trovò rifugio in un bel palazzetto borghese vista mare: in lontananza il profilo della costiera con Castellammare di Stabia, dove Viviani era nato.
A voler seguire un itinerario ufficiale, si perdono facilmente le tracce di scrittori e letterati: il Comune di Napoli non dispone di un elenco delle targhe affisse. Lo rivela la nuova presidente della commissione toponomastica, l’architetta Claudia Rusciano. A soccorrere il lettore in cerca di una topografia letteraria ci sono però lavori di pregio, come la Guida di Carlo Raso, edita da Colonnese negli anni Novanta e divisa in due volumi.
Partendo dal centro storico, tra i cardi e decumani della Napoli greco-romana sono ben vive alcune presenze illustri. Per esempio, tre targhe ricordano Giambattista Vico. La prima, in piazza Girolamini 112, è stata affissa nel 1868, bicentenario della nascita del filosofo, ed è ancora visibile a pochi passi dal piccolo murale di Banksy, la Madonna con la pistola. Fino a 17 anni, Vico era cresciuto in via San Biagio dei Librai 31. In questa casa, all’età di 7 anni, cadde rovinosamente a testa in giù per le scale e restò senza conoscenza per 5 ore. Il medico sentenziò che il ragazzo sarebbe rimasto minorato di mente: cantonata solenne che Vico stesso ricorda nella sua Autobiografia, aggiungendo però che gli rimase una certa attitudine «alla malinconia». La lapide sull’edificio natale la scrisse e la fece apporre Benedetto Croce nel 1941 e segnala anche che al piano terra c’era la bottega di libraio del padre di Vico. Oggi in quello spazio c’è una delle tante friggitorie aperte nella Napoli dell’overtouri sm, con grande rammarico di Marcello Veneziani, autore di una recente biografia di Vico. Nella Chiesa dei Girolamini, in via Duomo 142, c’è poi la lapide sepolcrale del filosofo, ma non è stato definitivamente chiarito se le spoglie lì sepolte siano davvero le sue.
Il centro storico è un sovrapporsi di stratificazioni: qui passarono Greci, Romani, Normanni, Angioini, Aragonesi, spagnoli, francesi. Napoli è città meticcia e accogliente, raccontata da schiere di scrittori e poeti. Nella basilica di San Lorenzo Maggiore, Giovanni Boccaccio s’innamorò di Fiammetta, ma nessuna targa segnala questo fatale incontro al visitatore. Poco distante, in largo Avellino, una lapide ricorda che Torquato Tasso vi abitò per 4 anni, nella prima giovinezza. Dalla casa di Luigi Settembrini a quella di Vincenzo Russo (poeta e paroliere per il quale Maurizio de Giovanni ha chiesto l’intitolazione di una strada), dalla dimora di Gaetano Filangieri, dove si recò in visita Goethe, fino a quella di Francesco De Sanctis, il reticolo urbano del centro è fitto di indirizzi illustri. Uno dei più noti ancora oggi nella memoria cittadina è quello di Benedetto Croce, nell’imponente Palazzo Filomarino che ospita l’Istituto italiano per gli studi storici fondato dallo stesso filosofo. Dalla finestra del suo studio, Croce guardava il campanile di Santa Chiara: «Mi grandeggia innanzi a destra e quasi mi pare di poterlo toccare», scrive in Un angolo di Napoli. E aggiunge: «È dolce sentirsi chiusi nel grembo di queste vecchie fabbriche». La città e le sue pietre gli parlavano. Così come era già accaduto a Giacomo Leopardi, che con Napoli ebbe un rapporto intenso e controverso durato 4 anni. C’è una targa sulla casa dove abitò in via Nuova Santa Maria Ognibene 52 e un’altra targa in vico Pero, dove morì, poco lontano dal Museo Archeologico nazionale. Oggi vico Pero è al centro di un progetto di arte contemporanea curato da Eugenio Giliberti e sul palazzo sono state proiettate immagini e versi del poeta. Leopardi fu seppellito a Piedigrotta, di fianco alla tomba di Virgilio, nel parco intitolato al poeta latino che secondo la leggenda pose un uovo magico sotto le fondamenta di Castel dell’Ovo.
La grande letteratura del dopoguerra ha lasciato tracce più labili nelle targhe cittadine. Non c’è alcun segno a ricordare dove visse il sanguigno Domenico Rea, che si definitiva «nofitano» più che napoletano, dal nome del paese immaginario dei suoi romanzi, dietro cui si cela la nativa Nocera. Né c’è una lapide sul bel palazzo dove visse Michele Prisco dopo che ebbe lasciato la sua «provincia addormentata». Entrambi gli scrittori approdarono nella maturità sulla collina di Posillipo, dove aveva soggiornato un secolo prima Oscar Wilde, innamorato della bellezza del panorama (nessuna targa nemmeno per lui). Anna Maria Ortese abitò in giovinezza in via del Piliero, oggi via Cristoforo Colombo, strada di grande scorrimento e proseguimento di quella via Marina che fu duramente bombardata nel 1943; la scrittrice racconta dei Granili (questo il nome borbonico) nel suo Il mare non bagna Napoli. Poi Ortese abitò anche a Chiaia, nei vicoli più «plebei» del quartiere: nel 2018 è stata apposta una targa in via Ferdinando Palasciano.
Nel 2021 ha avuto il suo riconoscimento anche Fabrizia Ramondino, con una targa sulle rampe di salita Pontecorvo. Autrice nomade e inquieta, il Comune ha scelto di dedicarle questa scala vicina ai luoghi dove esercitò la sua pedagogia attiva tra i ragazzini dei vicoli, con l’Associazione Risveglio Napoli e la Mensa dei bambini proletari.
Un’altra scrittrice inquieta aveva scelto Napoli e Ischia per un certo periodo della sua vita: Ingeborg Bachmann abitò con il musicista Hans Werner Henze in via Cavallino, Vomero alto, negli anni Cinquanta ancora zona rurale. Lì la poetessa austriaca soffriva il freddo in uno dei più gelidi inverni napoletani, nel 1956. Senza acqua corrente, in una villa inondata di luce, Bachmann scriveva i suoi Canti lungo la fuga. Nessuna targa ricorda quel soggiorno, ma come in molti altri casi, la città distratta resta scolpita nelle parole.