La Lettura, 14 gennaio 2024
Rivedere Il Cacciatore 45 anni dopo
Ricordo benissimo la prima volta che vidi Il cacciatore. Fu al Festival di Berlino del 1979: avevo 23 anni e muovevo i primi passi di una carriera da critico cinematografico che sarebbe poi sfociata nella regia. Ecco quello che ne scrissi allora (ringrazio gli amici di «Cineforum» che sono andati a ripescare quella remota corrispondenza dal festival): «Quella dei vietcong roulettari russi è una caricatura, così come la scena in cui un viet distrugge a bombe a mano una famiglia inerme e mitraglia una donna col suo bambino sanguinante. Nonostante tutte le sottigliezze interpretative Il cacciatore è un film dannatamente fascista». Ammettevo, però, che «anche se reazionario, è un film “inevitabile”».
Non fui certo il solo a contestare il film: il ritratto manicheo dei vietcong come sadici bruti era duro da accettare per molti critici e semplici spettatori. Eppure, è proprio per la sequenza della roulette russa che il film diventò famoso. Il fatto è che, anche condannandone il contenuto, non si poteva non riconoscergli una epicità da cinema classico. Credo che sia quello che cercavo di dire definendolo «inevitabile»: poteva comunicare idee sbagliate, ma lo faceva con una potentissima forza narrativa e visiva. Il cacciatore, infatti, fece incetta di Oscar e ottenne un enorme successo a casa e all’estero, anche se Cimino alla lunga ne pagò il prezzo. Come capita talvolta a Hollywood, il botto fatto da un film conduce i produttori a finanziare al regista quello successivo pensando di moltiplicarne l’esito. Purtroppo, nel caso di Heaven’s Gate (1989; in Italia I cancelli del cielo), si moltiplicò solo il budget, tanto da mandare in bancarotta la United Artists e costruire intorno a Cimino una’ura di «maledetto» che l’accompagnò fino alla fine della carriera, che resta indissolubilmente legata a Il cacciatore.
Adesso, 45 anni dopo la sua uscita, ne viene annunciata una riedizione restaurata. Decido di rivederlo, sotto la spinta della curiosità e di una sorta di senso di colpa. Ricordo bene la mia sicumera di allora, un atteggiamento da so-tutto-io tipico dei ventenni, in particolare in quell’epoca così ideologizzata; ed ero già pronto a fare ammenda dei miei integralismi. Insomma, lo rivedo e mi preparo a un revisionismo autocritico.
Ma ho una sorpresa. Continuo a pensare che Il cacciatore, nella sua ricostruzione della guerra del Vietnam, sia un film sciovinista, irrealistico, grottesco. Anche razzista, se si guarda al modo in cui Cimino ritrae i vietnamiti. Che siano vietcong o collaborazionisti, sono tutti dei musi gialli perfidi e radicalmente «altri» rispetto alla civile sensibilità degli occidentali (probabilmente le comparse thailandesi erano le stesse in entrambi i ruoli...).
Il fatto è che da tutte le polemiche che ne accompagnarono l’uscita una verità emerse: non è mai esistita nessuna prova che qualche prigioniero americano sia stato costretto a fare la roulette russa (anche se i campi di rieducazione vietnamiti non erano certo ispirati alla convenzione di Ginevra). Lo stesso Cimino non produsse mai nessuna reale evidenza, se non dire di «averlo letto da qualche parte». Di certo c’è che la storia della roulette russa proviene da un dramma teatrale ambientato a Las Vegas (The Man Who Came to Play di Louis A. Garfinkle e Quinn K. Redeker), che era il soggetto originale comprato dai produttori. Fu Cimino a trasformare Las Vegas nel Vietnam, elaborando intorno al nucleo centrale del plot tutta un’altra ambientazione. De Niro e gli altri attori, peraltro, dichiararono candidamente che «tra di noi, di Vietnam non si parlava mai». Insomma, il Vietnam de Il cacciatore ha la stessa consistenza fattuale della foresta di Birnam in Macbeth: è un luogo che si relaziona più all’immaginario che alla storia.
Purtroppo, il film vive in una dimensione ambigua: l’opzione ultrarealistica nel ritratto della comunità di cui fanno parte i personaggi riverbera sulla parte vietnamita un’aura di «autenticità» che davvero può far pensare a una malafede fascista. Ma siccome Il cacciatore resta un grande film («inevitabilmente», direbbe il vecchio me stesso), forse è proprio da qui, dimenticando il Vietnam, che bisogna ricominciare per considerarne l’importanza – e anche l’attualità.
La cosa che colpisce chiunque veda per la prima volta il film è un’apparente sproporzione tra le sue parti. Ci vogliono un’ora e sei minuti prima di arrivare in Vietnam, impiegati in una lenta e meticolosa descrizione della comunità di Clairton, Pennsylvania. Seguono 40 minuti che descrivono la guerra, la prigionia e la fuga dei tre protagonisti. Poi, altri 42 minuti a Clairton, per narrare il difficile rientro del reduce Mike (Robert De Niro), inclusa la scoperta che Steve (John Savage) è tornato invalido ed è ricoverato in un ospedale di veterani. Poi, il ritorno – inutile – in una Saigon ormai vicina alla resa per salvare Nicky (Christopher Walken): prende 16 minuti, seguiti dalla lunga sequenza del funerale in Pennsylvania, che occupa altri 8 minuti.
Delle quasi tre ore di durata del film, due terzi si consumano a Clairton, con uno spazio sorprendentemente ampio, quasi in stile documentario, dedicato, nella prima parte, alla festa di matrimonio (dura ben 28 minuti, ci vollero cinque giorni per girarla). Se dobbiamo cercare il centro di gravità del film, non è sul Mekong, ma sull’Ohio. In realtà nella Clairton vera e propria Cimino girò molto poco. Quello che si vede nel film è il prodotto di sette differenti location tipiche di un pezzo di Stati Uniti di solito poco frequentato dal cinema: un’America periferica ma non depressa, dominata da una monoattività industriale che determina tutta la vita sociale della città (in questo caso la metallurgia): una tipica company town senza grazia né fascino, che verrebbe voglia di definire una terra di nessuno, ma che invece Cimino descrive come l’amata patria di una comunità unita e strettamente connessa.
Quello che Cimino mette davvero in scena in Il cacciatore non è la periferia, ma il cuore dell’America, quella più legata alle radici, anche se si tratta di immigrati, in questo caso di discendenza russa. Quando un dottore chiede a Nick il cognome e lui risponde con uno che suona chiaramente slavo, al medico che commenta «Russo?», Nick risponde puntuto: «No, americano». E americani Mike, i suoi amici e le loro donne lo sono nel bene e nel male. A Clairton si lavora duro, si beve duro ancora di più, si picchiano le donne e insieme le si ama, si fa casino fino all’abiezione e passata la sbronza (o anche no) si parte in cerca di purificazione andando a caccia in montagne incontaminate. Non si leggono giornali, non ci si fa troppe domande anche quando vieni mandato al fronte: tutto è determinato dal sentirsi parte di una società che pur vivendo una vita che agli europei farebbe orrore condivide l’orgoglio di un sogno e di una appartenenza. Verrebbe da dire che se uno si chiede come fanno tanti americani a votare per Trump, per avere una risposta dovrebbe farsi un giro a Clairton. E non in senso politico: di politica nel film non si parla mai. Anche perché non è che a Clairton siano trumpiani per principio, come in certi stati del Sud: la Pennsylvania ha votato nel 2016 per Trump e nel 2020 per Biden. In un posto come quello la politica non è fatta di ideologia, è un impasto di ignoranza del resto del mondo e di fede nell’American Dream, una fede sospesa tra l’ingenuo e il genuino. È il sentimento che ti coglie nella sequenza finale, quando, dopo il funerale, i protagonisti si ritrovano intorno a un tavolo a cantare God Bless America. Potrebbe essere grottesco o ridicolo, invece comunica un senso di autenticità anche a chi non condividerebbe mai le implicazioni politiche di quella scena.
In questo senso rivedere oggi Il cacciatore è incredibilmente d’attualità. In tempi in cui il cinema Usa era impregnato di ben altro spirito (l’anno dopo usciva Apocalypse Now!), Cimino ha raccontato una specie di «eterno americano» che ci parla del presente.
Certo, se uno andasse a Clairton oggi troverebbe uno scenario piuttosto diverso da quello descritto nel film. La voce di Wikipedia dedicata alla cittadina ci informa che il luogo ha subito un netto declino dai tempi de Il cacciatore, dovuto alla crisi dell’industria dell’acciaio negli anni Ottanta. Un dato racconta tutto: oggi in città risiedono meno della metà degli abitanti del 1978, con quasi il 20% della popolazione sotto la linea della povertà. Stesso discorso per Mingo Junction, Steubenville, McKeesport e tutte le altre location. Probabilmente oggi quelle città assomigliano alle comunità devastate dallo spopolamento e dall’abuso di psicofarmaci che ci hanno raccontato documentari come Oxyana di Sean Dunne o installazioni artistiche come The Last Cruze di LaToya Ruby Frazier. In questi 45 anni l’idea di una società fiduciosa nella sua identità e nel suo destino – come appare in Il cacciatore — si è rovesciata nella nostalgia di qualcosa che non c’è più (e chissà se c’è mai stato...). Make America Great Again, come recita lo slogan più popolare dell’estrema destra Usa. Di certo, oggi, in primo piano balza un elemento che Il cacciatore già raccontava icasticamente: la violenza. Quello di Clairton è un mondo ad alto tasso di testosterone, dominato dal maschilismo, in cui l’amicizia virile convive con una oscura corrente di animosità. Mike e i suoi si abbracciano e si scontrano con la stessa facilità e, spesso, senza una ragione, quasi che la violenza sia una forma di riconoscimento sociale che lega il gruppo. È anche, naturalmente, un luogo in cui le armi sono nelle case di tutti, che servano per la caccia al cervo o per scopi non chiari nemmeno a chi le porta, come nel caso della pistola di Stan (John Cazale).
Quasi mezzo secolo dopo, la differenza sta che in quegli anni la violenza poteva essere indirizzata verso un nemico esterno, per quanto lontano e sconosciuto (forse proprio per quello). Oggi è invece diventata una questione interna al Paese, come indica la polarizzazione tra due Americhe, profondamente diverse e ostili l’una all’altra, di cui parlano quotidianamente le cronache. Viene da dire anche che, per una sorta di nemesi, sono gli Stati Uniti a essersi vietnamizzati. Ogni città americana, grande o piccola, è diventata una giungla in cui un nemico che ha il volto anonimo del mass shooter di turno può ucciderti a scuola, al cinema, in un centro commerciale, per strada – in una specie di roulette russa collettiva, dove è il caso a decidere se vivi o se muori. Il gesto finale di Mike, quando rinuncia a sparare al cervo, è un poetico atto di compassione che resta malinconicamente personale. Allora, forse, quel God Bless America che chiude il film, oggi non suona più come un canto di orgoglio patriottico, ma come la rassegnata invocazione a un dio che non salva più nessuno.