Robinson, 14 gennaio 2024
L’uomo che giocava a scopone con Mascagni
Come avvolto da una nube televisiva, nella quale si scorgono i lineamenti dolci e rotondi, Vanni Ronsisvalle snocciola con eleganza il rapporto con la Sicilia, dove è nato, e con il tubo catodico.Era la televisione degli anni Sessanta e Settanta, che molti oggi rimpiangono e che Vanni stesso elegge a maestra di vita. Dopotutto questo novantaduenne è stato una delle migliori firme culturali del piccolo schermo.Pasolini, Pound, il mondo di Tomasi di Lampedusa e quel Lucio Piccolo che con grazia e levità misteriosa scodellava il suo straordinario mondo poetico.Vanni, con quel cognome da Roman de la rose, ha cavalcato premi letterari (ne ha fondato uno), visto cose ormai dimenticate e scritto libri di memoria, quasi ad apparire troppo intenso l’attaccamento al suo mondo che oggi ripensa con un velo di malinconia.Hai lavorato per più di quarant’anni nella televisione pubblica. Che ricordo hai dei tuoi capi?«Mi fai una domanda strana. Sono stato per vocazione giornalista culturale, quindi fatalmente destinato a starmene al riparo dalle beghe politiche. La televisione per lungo tempo si identificò con Ettore Bernabei, cioè con l’essenza del potere democristiano. Nel bene e nel male è la Rai che si ricorda di più. Una persona a me cara fu Biagio Agnes. Sempre democristiano ma privo di quella intransigenza che in Bernabei sfiorava l’ortodossia. Entrambi, ma in modo diverso, dipendevano dalla segreteria del partito.Bernabei era stato messo in Rai da Amintore Fanfani, Agnes da Ciriaco De Mita. Una persona che feci appena in tempo a conoscere, dotata di grande professionalità, fu Vittorio Veltroni, il padre di Walter».Lo ricordi come?«Radiocronista straordinario, divenne il primo direttore del Tg. Era il 1956 e io, da poco assunto, preparavo il mio primo servizio; se non ricordo male su Stromboli: «Ne scriva la storia e giri le immagini, avrà più libertà», mi suggerì. Tornai un mese dopo con il materiale. Non fece in tempo a vederlo e non feci in tempo a conoscerlo».Una persona che hai conosciuto bene è stato Ezra Pound.«Lo incontrai al suo ritorno in Italia. Aveva passato dieci anni nel manicomio criminale di Washington.Andai a trovarlo a Sant’Ambrogio, vicino Rapallo, dove aveva vissuto con Olga Rudge fino al 1945. La casa era modesta. Olga mi fece accomodare in cucina. Pound mi sembrò assolutamente indifferente alla mia presenza. Lo rividi altre volte e mi venne l’idea di girare un film per la televisione su di lui. La cosa non fu affatto semplice».Perché?«Per il suo passato politico Pound era ancora considerato un personaggio scomodo. Non era facile sdoganarlo. Certo, c’era la sua importanza poetica e culturale. Ma non bastava per renderlo televisivamente potabile. Fu così che mi venne in mente di coinvolgere Pasolini che avevo conosciuto attraverso Moravia. Sapevo della sua ammirazione per l’autore dei Cantos. O meglio sapevo che aveva cambiato idea».Nel senso?«Era passato da un netto rifiuto del poeta, per ragioni diciamo politiche, a una vera e propria adesione alla sua prospettiva poetica che considerava debitrice di una visione rurale, in fondo non distante dal mondo contadino friulano che Pasolini aveva rievocato nelle sue poesie dialettali».Pound era anche molto altro però.«C’era tutta l’esperienza delle avanguardie, ilmodernismo, l’immaginismo, il vorticismo. E poi il lavoro su Joyce e Eliot. Ma a me interessava questo innamoramento improvviso. Sottoposi a Olga l’idea di un documentario su Pound con la partecipazione di Pasolini. Alla fine la Rai aveva accettato di produrlo e Olga Rudge, dopo qualche esitazione, accolse il progetto. Girammo il film tra Sant’Ambrogio, Rapallo e Venezia tra l’inverno e la primavera del 1967. Proprio a Venezia, nella casa di Olga, in calle Querina, davanti alla portoncino di entrata, infilato dentro un sacco a pelo c’era Allen Ginsberg».E che ci faceva lì il poeta della Beat Generation?«Olga mi disse che stazionava lì da giorni perché voleva incontrare Pound. Lo ammirava considerandolo il poeta che aveva cambiato la poesia americana. Sosteneva che senza iCantos non avrebbe mai potuto scrivere Jukebox all’idrogeno. Pound non aveva nessuna intenzione di riceverlo. E non so come in seguito la vicenda sia finita. Girammo le riprese e fu in quella circostanza che invitai Ezra e Olga in Sicilia, alla prima edizione del premio Brancati Zafferana che si sarebbe tenuto in settembre».Accettarono?«Erano incuriositi dalla Sicilia. Andai ad accoglierli all’aeroporto di Catania con il sindaco di Zafferana Alfio Coco. Il comune per l’occasione mise a disposizione del poeta una Isotta Fraschini, la stessa che l’anno prima aveva trasportato Liz Taylor. Con quella automobile Pound fece il suo ingresso a Zafferana».Chi c’era a riceverlo?«La gente del paese era molto incuriosita di vedere questo vecchio dall’aria ascetica aggrappato al braccio di Olga incedere lentamente verso le scale del municipio. C’era il sindaco, c’era la giuria del premio, composta tra gli altri da Alberto Moravia, Dacia Maraini, Pasolini e Lucio Piccolo il quale si accostò a Pound mormorando in inglese: “Magnificent, magnificent…”».Piccolo era il cugino di Tomasi di Lampedusa e poeta. So che girasti un altro bel documentario su di lui.«Ricordo che gli chiesi cosa pensasse del Gattopardo e lui davanti alla telecamera esordì con un paradossale “rimanga tra noi” e poi aggiunse: “per quel mondo io non ho mai avuto nessun interesse”. Realizzai il documentario praticamente in contemporanea con quello su Pound. A Piccolo giunsi attraverso Montale che aveva molto apprezzato iCanti barocchi. Montale raccontò che Piccolo si era presentato a lui a Milano insieme al cugino che ancora non aveva scritto Il Gattopardo. Entrambi si erano fatti accompagnare da un valletto muto intento a sovraintendere un enorme guardaroba che comprendeva anche lenzuola, guanciali e coperte. Montale si aspettava di vedere un giovane e invece Piccolo era solo di qualche anno più giovane di lui».Dalle foto Piccolo sembra una maschera.«Aveva qualcosa di proustiano nel volto, una stralunata espressione che rendeva splendidamente anacronistica la sua faccia».Un aristocratico.«Proveniva da una famiglia antica e ricca, sebbene decaduta, come si poteva ancora arguire dalla villa di Capo d’Orlando. Una famiglia che rischiava di estinguersi per mancanza di eredi. Per cui fu chiesto a Lucio il grande sacrificio, affinché la stirpe dei baroni Piccolo di Calanovella potesse sopravvivere».Che consisteva in cosa?«Nessuno della ultima generazione si era sposato. Sul casato aleggiava il dramma del barone padre che fuggì a Sanremo con una ballerina slava e dilapidò ilpatrimonio al gioco d’azzardo. Fu la ragione per cui la baronessa Teresa prima di morire inculcò l’odio nei figli per il matrimonio. Ma i due figli maschi erano già vecchi quando si pose il problema della successione. E la scelta per ragioni anagrafiche cadde su Lucio. Aveva 51 anni».Come reagì?«A malincuore dovette accettare. Fu allestita un’alcova nella dependance della villa. Ma al primo incontro se ne fuggì pare a gambe levate. Dovettero riprenderlo e portarlo a forza nell’alcova. Ma questa volta murarono l’ingresso con la coppia dentro. Fu l’unica notte d’amore. Nove mesi dopo Maria Paterniti, la ragazza che fino a quel momento aveva incartato arance, diede alla luce un bel maschietto. La casata era salva».Montale lo frequentavi.«Capitava che lo vedessi. Abitava a Milano, in via Bigli.Una volta andai a prenderlo in taxi e lo accompagnai in Rai per un’intervista. Era avvolto da un cappotto intriso di pioggia che emanava un pungente odore di canfora. Micidiale per le tarme, ma anche per me.Durante il tragitto gli chiesi se fosse vero che qualche volta si era sentito ebreo. Ci pensò su e poi disse che ne aveva lungamente discusso con Giacomo Debenedetti e che nel 1938, l’anno delle leggi razziali, scrisse a BobiBazlen di essere di fronte a un’alternativa: chiedere un visto per gli Stati Uniti o spararsi un colpo di rivoltella».Perché questa identificazione con gli ebrei?«Accennò alla sofferenza e a una certa emarginazione.Per un poeta acclamato e firma importante delCorriere, mi sembrò strano. Scendendo dal taxi, prima di infilarci nella sede della Rai, cercò un tabaccaio, comprò delle sigarette al mentolo, marca Macedonia, dalla forma schiacciata, che le signore negli anni Quaranta prediligevano per non deformarsi le labbra».Tu negli anni quaranta eri un adolescente.«C’era la guerra. Mio padre – ginecologo specializzato a Berlino – ebbe l’incarico di direttore sanitario dell’alta Italia. Ci stabilimmo così per un periodo a Venezia, ma dopo l’8 settembre del 1943 ci trasferimmo a Roma. Per molti mesi abitammo all’Hotel Plaza, dove da anni Pietro Mascagni conservava una suite».Lo hai conosciuto?«Essendo un patito dello scopone scientifico, Mascagni mi voleva spesso accanto, sostenendo che ero una sorta di ispirazione fortunata. L’uomo era anziano, concentrato su come gestire la fase finale della sua vita. Ma ricordo che attorno a lui c’erano altri personaggi: l’attore Ruggero Ruggeri e la sua amante, una danzatrice russa, il compositore Willy Ferrero, ilfiglio di Mascagni, Mimì, vestito da brigatista nero, in partenza per Salò. C’era il feldmaresciallo Kesselring, la principessa Giovannelli, ormai quasi novantenne. E c’erano in un vassoio, accanto al pianoforte, sul quale si intravedeva lo spartito della Cavalleria rusticana,diverse brioscine smangiucchiate che Pio XII ogni mattina faceva pervenire al vecchio Mascagni».Una scena quasi surreale.«Completamente, mentre Roma era alla fame, piagata dalla furia dei tedeschi, lì sembrava di vivere in un altro mondo. In una quinta teatrale. Fra il 3 e il 4 giugno del 1944 molti di questi illustri frequentatori si affacciarono dalle finestre del primo piano dell’albergo. A destra c’era piazza del Popolo occupata dai tedeschi, a sinistra piazza Venezia, da cui sarebbero arrivati gli americani. Era una gara tra chi fuggiva o chi arrivava prima. Con gli americani nella capitale tornammo a Messina. Per poi ritrasferirci a Roma. Feci un tentativo di studiare medicina, ma alla fine seguii l’istinto. Grazie a Carlo Bernari, amico di mio suocero, ho conosciuto scrittori e avuto l’opportunità di lavorare in televisione».Cosa è stato fare il giornalista culturale?«Vivere dentro una bolla, almeno è così che ci vedevano dall’interno dell’azienda. Ma anche la fortuna di incontrare personaggi straordinari: Saul Bellow in un bar di New York, Amália Rodrigues in un albergo di Lisbona, Herbert Belmore, amico di Benjamin, a Roma e sempre a Roma trascorsi alcuni giorni memorabili con Andy Warhol».Che cosa faceva a Roma?«Era lì per presentare il suo ultimo film:Il male, girato da uno della Factory. Andai a trovarlo al Grand Hotel.Invece di scendere mi ricevette nella suite. Si presentò avvolto da una vestaglia di organza. Mi salutò distratto. Aveva tra le mani il biondo parrucchino con cui di lì a poco avrebbe ricoperto il cranio. Poi uscimmo dall’albergo. Warhol portava a tracolla una piccola macchina fotografica. Cominciò a scattare.All’altezza di Santa Susanna incontrammo casualmente Fellini. Warhol era sorpreso e felice.Fotografò il regista e me e infine l’operatore che mi seguiva. Fellini aveva finito di girare Casanova e invitò Warhol a fargli visita, non so se per il montaggio o per una prima».Che anno era?«Il 1977, nell’intervista che gli feci parlammo degli anni Sessanta che Warhol considerava il decennio più geniale che aveva vissuto. Finito l’incontro, estrassi da una sacca un barattolo della famosa zuppa Campbell’s e chiesi a Warhol di apporvi una firma. Me la dedicò e poi da una tasca tirò fuori un bloc–notes e su tre foglietti disegnò degli schizzi. Uno per Fellini che era ancora lì, uno per l’operatore e uno per me. Fu davvero una giornata speciale».