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 2024  gennaio 14 Domenica calendario

Intervista a Monica Guerritore

Secondo Maria Paiato lei è una mattacchiona.
Lo so, è sorprendente, ma è il mio aspetto a risultare severo: il profilo, le sopracciglia, il naso, l’atteggiamento dritto. Tutto fende l’orizzonte.
Intimorisce.
La stessa Paiato mi ha confessato di avermi vista più volte a teatro, ma di non essere mai venuta nei camerini per non disturbare: “Sembravi distante”.
Eppure.
Sono sempre stata la mascotte del gruppo, fin da quando ho iniziato: avevo 15 anni.
Una donna schierata.
È la mia natura, il mio carattere. Un po’ come il pubblico; ogni tanto mi chiedono se ho paura ad andare in scena e la risposta è no, perché il pubblico è parte dell’operazione che sto portando avanti.
Non trema al “sipario”…
(Sospiro) No, no. Quando portavo in scena Giovanna d’Arco, in ogni città arrivavano i vigili del fuoco e spesso li rassicuravo: “Tranquilli, tutto a posto: a un certo punto lei muore bruciata”. “Come, bruciata?”. “È Giovanna d’Arco!”. Restavano sbigottiti. Poi li rassicuravo “È solo una metafora”.
(Solida, “tonda” nella sua missione. Preparata. Allegra con giudizio; pervasa dal giudizio con allegria. È Monica Guerritore. Le assi, il sipario, i camerini, la liturgia del prima e del dopo sono il rosario della sua esistenza: li snocciola, ogni frase una preghiera laica, anche quando, prima del debutto romano di “Ginger & Fred”, Pietro Bontempo s’infortuna, tutto rimandato di una settimana, e Massimiliano Vado prende il suo posto: “Il teatro è così”).
Scherzo per scherzo, nel documentario di D’Agostino, Verdone racconta che una volta è uscita vestita da calciatore della Roma con tanto di scarpini…
Destinazione Jackie O’: avevo un appuntamento galante, segreto; (cambia tono) ma Carlo non conosce la verità.
Sveliamola.
Tutti pensano che quella sera io sia andata via con Alain Delon, in realtà il “lui” era Giancarlo Giannini, al tempo ancora sposato.
Uscire di sera con gli scarpini, sai che dolore.
Però i pantaloncini erano leggermente più alti e le calze arrivavano sopra il ginocchio. Capisce?
C’era della malizia.
(Ride) Un pizzico di Mary Quant nella divisa della Roma.
Nella sua vita si è divertita?
Tanto, tantissimo; perché grazie a Strehler mi sono concentrata su quello per cui sono nata e grazie a mia madre che ha dato retta allo stesso Strehler; (abbassa la voce) sono sempre stata nel mio posto.
Da sempre.
Però il mio posto è il teatro, anche a scapito del cinema; a teatro è come vivere in collegio: stai con gli altri, vivi con gli altri, mangi con gli altri. Ci si spalleggia. Si condivide. Specialmente da quando sono regista.
Ora è impegnata in Ginger & Fred.
Dopo L’anima buona di Sezuan cercavo la stessa tenerezza, lo stesso modo di raccontare la vita; in qualche modo c’è una triangolazione tra Fellini, Brecht e Strehler.
Quale?
Strehler nel 1981 è passato da un racconto di Fellini nella sua rielaborazione della metafora di Sezuan; (pausa) sa cosa mi ha interessato? Quello che siamo lo scopriamo dalla tv.
Ancora oggi?
Gli show sono sempre più estremi per mantenere alta la tensione prima di arrivare alla pubblicità; se uno esce da questa dinamica vede il presentatore disperato. E poi si sfrutta un’umanità per i suoi aspetti più richiedenti: chi vorrebbe diventare attore, chi cantante, chi mago, le ciarlamaghe.
Ha mai chiesto a una zingara “degregoriana” di leggerle le carte?
(Ride) Qualche volta; ho pure ceduto al gioco delle tre carte.
Ci è cascata?
Nella disperazione di Lavia: “Ma come, fuori dall’autogrill caschi in questa cosa?”. “Magari vinco”. “Ma che vinci?!”.
Ha perso.
Ovviamente.
Come si sente nelle vesti di autrice e regista?
Ho un’immagine in mente e su quell’immagine lavoro.
Ha una proprietà intellettuale importante: nata o trovata?
Ho riscoperto dei quaderni nei quali da dodicenne scrivevo racconti e riflessioni; poi a 15 anni mi sono ritrovata in platea, con Strehler che mi diceva “non andare in quinta, stai qua: ti metti dietro di me e guardi”.
Quindi?
È stato naturale diventare regista perché piano piano ho ascoltato e acquisito tutti gli aspetti: dai tempi alle luci, alle scenografie; ricordo Strehler che vietava le luci frontali: “Non voglio vedere i loro visi, voglio il racconto di un uomo che rappresenta tutta l’umanità”.
E lei?
Ero colpita, ma evidentemente ero predisposta perché lo bevevo, bevevo tutto, mi ha donato l’imprinting che mi accompagna oggi.
E Lavia?
Mi ha dato la struttura tecnica della regia: la fatica fisica, il non accontentarsi, la perfezione.
Tra voi strehleriani esiste una forma di gelosia legata a Strehler?
Di strehleriani registi ci siamo solo io e Gabriele; non sono mai andata a una mostra su di lui o davanti a una scultura a lui dedicata.
Insomma, sono cinquant’anni dal debutto.
Con Vittorio De Sica; il mio primo ciak è stato piangere davanti a un bicchiere di latte dentro al refettorio; (sorride) De Sica iniziò a trattarmi molto male, io non capivo, quindi nel film ho un’aria smarrita, con gli occhi pieni di lacrime, e lo stesso De Sica piazzato accanto alla macchina da presa. Lo aveva fatto apposta, non è stato tanto gentile, ma si era portato a casa un pianto vero.
Da regista lei è così?
Il teatro è diverso, è più complicato: la prima cosa è mettere insieme gli attori, racconto loro ciò che vedo, poi si legge senza intenzioni, senza toni e piano piano iniziano a entrare i personaggi. Quando si va in scena i movimenti sono già definiti.
Intimorisce con la sua cultura.
Non me l’ha mai detto nessuno.
Mai?
Non mi piace intimorire; sono un Capricorno, ho un carattere brusco, sul lavoro sono molto tecnica, l’arte arriva dopo; è questo che mi ha permesso di tornare in scena a dodici giorni da un’operazione.
La magia del teatro.
Sì, ma solo se prima hai organizzato tutto, solo se c’è un gruppo coeso in grado di dirti “stai tranquilla, vai avanti, ti aspettiamo”.
Visto che ha iniziato così presto, non ha rischiato di “perdersi”.
Sono stata messa al riparo, non so se per l’intuito o per un angelo custode…
Cioè?
Ho iniziato con Il giardino dei ciliegi, a 15 anni; durante la prima pausa ho preso le Pagine Gialle, ho visto dove stava la Rai e mi sono diretta a viale Mazzini. Lì mi sono presentata al portiere: “Sono un’attrice, queste sono le mie foto e le recensioni. Chi si occupa degli sceneggiati e della prosa?”. “Ce ne sono due: Ottaviano e Salvi”. “Chi è il più simpatico?”. “Ottaviano”. “Bene, gli può dire che c’è Monica Guerritore, attrice del Piccolo”.
E con Ottaviano?
Lo vedo, sto per consegnargli tutto, eppure mi ferma: “Non c’è bisogno, ero alla prima dello spettacolo al Piccolo”,
L’ego come s’è sentito?
Non ho pensato a me; conosceva la mia storia, non ero una postulante; interpreto troppi personaggi per avere un ego che si incazzerebbe per ogni ruolo differente; (pausa) comunque mi dà la possibilità di un provino per Martin Eden: mi depilo tutta e divento bionda. Mi prendono. E l’anno dopo ottengo un ruolo pure in Manon.
Un successo.
Giro l’estate, poi in autunno torno in scena con Il giardino e lì…
Cosa?
Una domenica del 1977 va in onda la prima puntata con me molto carina, appetibile nei panni della prostituta e immediatamente, il giorno dopo, non riesco a uscire dalla hall dell’hotel: mi chiamavano tutti.
Assediata.
Non potevo camminare.
Esisteva ancora una cultura nazional-popolare.
No, c’era una cultura che portava a guardare Romeo e Giulietta o Delitto e Castigo.
Una volta a teatro?
In compagnia c’era Valentina Cortese: quando entrava in scena il pubblico le tributava l’ovazione; quel giorno entro e parte un applauso infinito; guardo in quinta e vedo Valentina pronta, ma ci ripensa e si ritira nell’ombra. Sono sbiancata per la vergogna. È stato un qualcosa che mi ha colpito così tanto da capire un dato: non era l’applauso che desideravo.
Perché?
Primo: era troppo; secondo: non dipendeva da me. Come era arrivato se ne sarebbe andato. Da qual momento ho deciso di non recitare più per la tv e ho mantenuto la promessa per quasi vent’anni. Per me il teatro era già tutto. Già studiavo sempre con Valentina.
Lei è soddisfatta,
Molto.
Spesso i suoi colleghi raccontano la propria vita con la chiave della solitudine, del dramma…
Del poeta maledetto? Sono all’opposto.
Non le pesa l’autografo.
Quando arrivi a quest’età, e non vai in televisione, vuol dire che ti hanno seguito negli anni. Mi fa piacere. Mi dà sicurezza.
Così attenta alla perfezione, come si è trovata nel mondo del cinema, a volte approssimativo?
Ho girato film che mi hanno dato grande forza e spesso ho lavorato con registi come Gabriele (Lavia) e Samperi con i quali era possibile ricostruire quel concetto di gruppo.
Enrico Lucherini sostiene: “Non aveva capito quanto fosse erotico Fotografando Patrizia…”.
Non è vero; Lucherini ancora gioca con i suoi intenti da scandalo.
Le celebri “lucherinate”.
A Venezia, a freddo, pretendeva svenissi.
Qual è l’accusa che le rivolgono più di frequente.
Sono stata minacciata di morte, ho avuto la Digos a teatro.
Che è successo?
Nel 2019, in tv dalla Gruber, avevo detto che la Meloni sosteneva una cazzata con l’affermazione: con noi al governo 600 mila stranieri saranno rimpatriati in 20 giorni. E poi sono parte di quel gruppo che viene definito radical chic o che non ha mai fatto nulla nella vita. Che il marito guadagna.
Quanto contano i premi?
Mai ottenuti per il teatro.
Come mai?
Non sono parte della categoria “attrici di teatro”.
Ancora: come mai?
Ho recitato per il cinema e in film “scandalosi”; e poi pure per la televisione; sono l’attrice meno premiata.
Si piace nei suoi film?
Non li vedo.
Nessuno.
Amo Femmina e La lupa; non mi vedo perché il personaggio è nella mia immaginazione e nella mia immaginazione è più preciso di quel che vedo.
Lei chi è?
Io sono tu.