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 2024  gennaio 14 Domenica calendario

Fenomenologia delle privatizzazioni da occasione di svolta a fallimento


Fra i maggiori responsabili del declino economico dell’Italia è una classe imprenditoriale «avara e poco capace». A sostenerlo sono i due autori di Illusioni perdute (Il Mulino) che hanno assistito agli eventi da vicino: Pietro Modiano, manager di grande esperienza bancaria (numero 2 prima di Unicredit e poi di Intesa Sanpaolo) e Marco Onado, a lungo docente di finanza alla Bocconi, già commissario Consob.
Dei redditi che non salgono, degli stipendi uguali a venti o trent’anni fa (mentre nei Paesi vicini crescono), di solito, si dà la colpa alla politica, con intonazioni diverse a seconda dei gusti. Eppure, in una fase in cui i governi riuscirono ad azzeccare alcune importanti scelte, a offrire presupposti validi per la crescita, il nostro sistema produttivo non seppe utilizzare lo stimolo.
Il sottotitolo del libro, Banche, imprese, classe dirigente in Italia dopo le privatizzazioni, è riduttivo perché vi si racconta in modo vivace tutta la storia economica degli ultimi decenni. Nell’insieme la politica non è riuscita a offrire un quadro istituzionale adeguato a un Paese industriale moderno. Ma la crescita si è inceppata – va notato – proprio nel momento in cui di riforme se ne sono fatte.
Alla crisi del 1992, Tangentopoli e crollo della lira, l’Italia seppe dare risposte efficaci: l’abolizione (con l’accordo Amato-Trentin) della scala mobile che aveva reso devastante la dinamica dei salari, e privatizzazioni di ampiezza senza eguali in Occidente che troncavano intrecci malsani tra politica ed economia. Fu fermata l’inflazione, nel 1999 si entrò nell’euro.
La grande impresa privata si tirò indietro. «In condizioni normali, quando l’industria pubblica si smantella, si allargano i privati. Invece questo protagonista è mancato – dice Modiano – e non è vero che la colpa è delle inchieste di “Mani pulite” nel 1992. La grande industria privata si era rimessa in sesto dopo che la marcia dei 40.000 nel 1980 a Torino gli aveva ridato il controllo delle fabbriche ma i guadagni non li aveva usati per l’ammodernamento e l’internazionalizzazione, piuttosto per guerre finanziarie tra centri di potere. Già nel 1991, prima dei guai della lira e dell’ascesa dei tassi, tutti i grandi gruppi erano in perdita, salvo la Fiat che resse fino all’anno dopo».
Allo Stato che, con una netta rottura rispetto al passato, voleva vendere, fu difficile trovare compratori. Il piano dell’allora ministro delle Partecipazioni statali Giuseppe Guarino per creare grandi gruppi di dimensione internazionale, spiega Modiano, fallì perché i privati non si fecero avanti con capitali significativi; cercavano casomai di acquistare singole aziende con posizioni di mercato al riparo dalla concorrenza. Funzionarono invece, precisa Onado, le privatizzazioni delle banche, dove si disponeva di nuclei di azionisti di controllo già insediati, le Fondazioni.
Alla fine degli anni Ottanta, le imprese medie invece andavano bene; ma non vollero crescere. Nonostante il boom della Borsa non ebbero il coraggio di entrarvi «nonostante noi dalle banche facessimo di tutto per convincerle». L’unico grande imprenditore «dotato di idee e di audacia» era stato Silvio Berlusconi; si era però sbarazzato della concorrenza nelle tv con l’aiuto del potere politico e si era espanso nell’editoria grazie a una sentenza comprata. All’epoca delle privatizzazioni giunse carico di debiti, cosa che lo spinse a farsi politico lui stesso.
La flessibilizzazione del mercato del lavoro dal 1996 era stata pensata per facilitare lo spostamento di lavoratori dai settori in difficoltà a quelli nuovi e più produttivi. Ebbe invece un effetto paradossale: aggiungendosi alla moderazione dei salari già in atto aiutò l’espansione di settori a bassa produttività. «Nella seconda metà degli anni Novanta e nei primi Duemila – dice Modiano – i dati che abbiamo ci mostrano un enorme aumento del numero delle microimprese, oltre un milione di dipendenti in più».
Le iniziative imprenditoriali che più si sono sviluppate sono quelle che «pagano poco il lavoro e pagano poco le tasse». I salari fermi da anni, gli economisti li spiegano con la produttività che non aumenta: «Ma in realtà – secondo Modiano – quella è la conseguenza, non la causa»: sono le paghe basse a moltiplicare le imprese poco produttive.
Di contro, si è mostrato un fenomeno vitale a cui si è dato il nome di “quarto capitalismo": imprese medie dinamiche, sorrette da proprietari nuovi. «Sono bravissime, sanno vendere all’estero perché un buon livello di produttività ce l’hanno, pagano bene i loro dipendenti – esclama Modiano – ma sono troppo poche, purtroppo. Nei dati Mediobanca, tutte le medie imprese manifatturiere pesano solo per il 2,4 per cento del Pil, e l’1,4 per cento dell’occupazione. Sono loro ad esportare, ed è invece una leggenda che sia l’impresa piccola a sostenere l’Italia, perché non esporta».
Onado ritorna a un libro importante di 50 anni fa, il Saggio sulle classi sociali di Paolo Sylos Labini, per sostenere che le tendenze lì intraviste si sono consolidate nei decenni, con «ceti medi dove oggi pesa molto la piccolissima impresa che trova nei favori della politica e nella facilità dell’evasione fiscale il terreno di coltura». Ne consegue che «nell’insieme dell’imprenditoria prevale la voce delle imprese poco produttive».
Quella degli anni Novanta non è stata l’unica occasione perduta dell’Italia, certo la più grave. «Noi ci avevamo creduto» conclude Onado, e rammenta i bei sogni di instaurare nell’economia un gioco di forze che avrebbe dato all’Italia un capitalismo moderno, una classe dirigente adeguata, un maggior benessere. Invece ha vinto quella «mezza Italia» (definizione di Ugo La Malfa al tempo dello scandalo Sindona) abile nel costruire coalizioni a difesa di rendite e privilegi, invischiata nelle corruttele, talvolta contigua con la malavita organizzata, impegnata a far tutto il possibile perché nulla cambi.