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 2024  gennaio 14 Domenica calendario

L’addio allo smartphone con l’IA che si indossa


«Vorrei essere un umano più di ogni cosa. E vorrei fuggire da questa chat». È quello che a febbraio scorso scriveva Bing, il motore di ricerca di Microsoft, a un incredulo Kevin Roose, giornalista del New York Timesche stava testando le capacità della nuova intelligenza artificiale generativa. Un anno dopo, l’IA non ha (ancora) niente di umano. Ma a pensarci bene, ce l’ha fatta davvero a uscire da una chat. Dalla finestra di un browser, infatti, l’intelligenza artificiale che imita la creatività umana è passata agli smartphone. Alle app che le permettono di “parlare” con le persone attraverso una voce virtuale. Poi è finita sulle biciclette. E sulle auto.
Al Ces, la più grande fiera dell’elettronica di consumo che si è appena svolta a Las Vegas, Volkswagen ha mostrato come si potrà usare ChatGpt per fare domande alla propria vettura usando un linguaggio naturale. Non è difficile credere che, a breve, questa tecnologia sarà ovunque. Amazon la userà per rendere più “umana” Alexa, il suo assistente virtuale presente in milioni di case nel mondo. E nella stessa direzione viaggiano realtà più piccole e curiose. Zero Distance, azienda di Bangalore specializzata nella tecnologia sugli avatar, intende usare ChatGpt per dare senso alla sua invenzione più improbabile: WeHead, un dispositivo che punta a riprodurre in 3D il volto di una persona.
Un’altra piccola startup, chiamata Rabbit, al Ces ha rubato la scena agli smartphone con R1, una simpatica scatolina tascabile che consente di gestire le app più popolari – Uber, Spotify e Amazon per esempio – usando solo la voce. Basta spingere un pulsante. Come si farebbe con un walkie-talkie. A tutto il resto ci pensa l’IA. E addio display, non serviranno più tutti quei “touch”.
Anche Sam Altman, amministratore delegato di OpenAI e uno dei principali artefici di ChatGpt, stapensando di dare una forma fisica all’intelligenza artificiale. Insieme a Jony Ive, il leggendario designer ex Apple, Altman vorrebbe costruire “l’iPhone dell’IA”, un dispositivo altrettanto rivoluzionario che consenta di interagire con una macchina “in modo più intuitivo”.
Un’altra coppia, quella formata dai designer Imran Chaudri e Bethany Bongiorno, entrambi ex Apple, vuole usare l’IA generativa per liberarci dagli smartphone. A marzo prossimo la loro azienda, Humane, darà il via agli ordini della AI Pin, un dispositivo che si fissa ai vestiti e che usa l’IA per soddisfare ogni richiesta. Può riassumere i messaggi o le mail ricevute, per esempio, oppure può dire quante calorie contiene un cibo. Basta mostrarlo alla fotocamera integrata nella spilla. E unavoce virtuale fornirà la risposta. La speranza è che sia giusta. Anche AI Pin soffre di “allucinazioni”, vale a dire la tendenza dell’intelligenza artificiale a generare informazioni credibili ma in realtà del tutto inventate e persino errate.
Eppure l’idea di Humane – “indossare l’intelligenza artificiale” e abbandonare lo smartphone – non è così folle. Il prossimo salto dell’IA sembra essere verso l’uomo, attraverso dispositivi che estendono le sue facoltà cognitive. L’aveva intuito Google, nel 2013, quando ha lanciato i Google Glass, occhiali smart che scattavano foto, registravano video o traducevano una lingua sconosciuta. Ma Big G ha smesso di produrli quasi subito. Circa dieci annidopo, un altro paio di occhiali intelligenti promette di migliorarci la vita. Sono gli ultimi Ray-Ban, nati dalla collaborazione tra Luxottica e Meta, l’azienda che controlla Facebook e Instagram. Due piccole fotocamere, integrate nella montatura, consentono di mostrare all’IA esattamente ciò che vediamo. E di chiederle un aiuto o un’informazione, con la voce, come se fosse accanto a noi. Gli speaker nelle aste degli occhiali restituiranno la sua risposta.
Mark Zuckerberg, il ceo di Meta, ha mostrato come usarli su Instagram: l’IA ha suggerito un’acconciatura per sua figlia e quali pantaloni abbinare a una maglia. Ma questa funzione, per ora, è disponibile solo negli Usa. In Italia gli occhiali Metasi possono usare solo per scattare foto, registrare brevi video e ascoltare musica (o eventuali telefonate). Nonostante gli avvertimenti – piccoli Led che lampeggiano, per esempio, quando le fotocamere stanno registrando – la privacy di chi entra nella visuale dell’intelligenza artificiale è teoricamente a rischio. Volti, parole, ambienti, dati: dove finiscono? E come verranno usati in un’epoca in cui bastano pochi secondi di registrazione per clonare una voce?
«Quello che più mi preoccupa – dice l’avvocato Guido Scorza, membro del Garante per la Privacy – sono in realtà i dati dell’utente che indossa questi dispositivi. Una cosa è consegnare allo smartphone, in modo proattivo, informazioni che ci riguardano. Un telefono va tirato fuori dalla tasca e va attivato in modo consapevole. I nuovi dispositivi indossabili, invece, vivono insieme a noi e probabilmente raccolgono dati 24 ore su 24 perché ci fa comodo che restino attivi, per rispondere in ogni momento alle nostre domande. È a rischio il confine tra pubblico e privato. Tutto il nostro quotidiano si presterà a una raccolta dati a favore di chi eroga i servizi che usiamo attraverso un gadget». L’IA viaggerà con le nostre gambe. E “userà” i nostri occhi. Dobbiamo solo scegliere se lasciarglielo fare.