la Repubblica, 14 gennaio 2024
I diari di Matteo Messina Denari
PALERMO – Negli ultimi tempi della latitanza aveva iniziato a tenere un diario personalissimo. «A 16 anni sapevo cosa volevo e dove stavo andando», scriveva Matteo Messina Denaro. «Oggi, invece, e sembra un paradosso, non lo so più». Parole che non ti aspetti da un capomafia responsabile di omicidi e stragi, custode di tanti segreti rimasti nel mistero, arrestato un anno fa e morto il 25 settembre scorso, stroncato da un tumore.
Il 29 gennaio 2019, annotava: «Tutto attorno a me è buio pesto, dove mi trovo? In che direzione vado? Non ne ho idea, non so neanche perché sono ancora vivo». In quella pagina del diario aveva incollato il testo di una canzone di Loredana Bertè, “Dedicato” si intitola. «A chi si guarda nello specchio – dice il brano – E da tempo non si vede più. A chi non ha uno specchio. E comunque non per questo non ce la fa più». Il boss commentava: «Non voglio fare la vittima, non lo sono, non lo sarò mai. Anzi, sto troppo bene nella mia follia, avrei anche troppe rivincite da prendermi, ma oggi quel che accade del dopo non mi interessa più di tanto. Mi sento come se fossi seduto tutto solo in fondo al mare».
La confessione
Fa impressione leggere il boss più potente di Cosa nostra che scriveva di sentirsi “solo” e pure “triste”: «Sono un uomo passato attraverso tante prove dolorose, ormai esperto nel sopportarle – annotava ancora –. A questo pensiero mi sento pervadere da una grande tristezza».
Perché questa crisi interiore? Leggendo i suoi diari – i carabinieri del Ros ne hanno trovati tre – si comprende che era il travagliato rapporto con la figlia Lorenza, mai incontrata, a creargli un grande disagio. La giovane voleva vivere una vita normale, senza le imposizioni delle zie paterne, il boss non lo accettava. Il 18 maggio 2019, era arrabbiato con lei: «Oggi ho saputo che già da tempo vivi a Londra, essere genitori significa saper porre dei limiti. Tu non hai avuto posto alcun limite. Lorenza vedi che così facendo poi la vita ti frantuma. Tutto ciò lo si deve all’assenza/ impotenza di un padre. Alla scelleratezza di una madre e alla pazzia-insensatezza della gioventù. Spero che i miei pensieri possano proteggerti figlia mia».
La rabbia
Due anni prima, aveva scritto altre parole affrante, come se l’avesse davanti: «Lorenza, il rapporto non è basato sulle distanze. C’è dell’altro, c’è il cuore. Noi due dovevamo avere il conforto di sentirci al sicuro fra di noi. Ed invece si è ridotto tutto a delle macerie d’amore». Qualche mese dopo, scriveva invece di sentirsi in colpa: «Non mi sono mai preso cura di te, non ci siamo mai sfiorati, giorno dopo giorno non abbiamo mai mangiato dallo stesso piatto, mai sentito gli stessi profumi, non ti ho mai protetto… e questo significa essere padre e figlia?». Un travaglio grande, che più di recente, si era trasformato in rabbia. E in una delle lettere alle sorelle arrivava a chiamare Lorenza una “sciacqualattuga”, una “degenerata”. Ma era per lei che scriveva quei diari, diceva che un giorno glieli avrebbe fatti avere.Sono parole che valgono più di un trattato di sociologia criminale, sono uno straordinario spaccato della vita quotidiana di un capomafia oggi: Messina Denaro era un uomo in crisi per una vita senza gli affetti veri, ma è rimasto sempre un irriducibile e anche di fronte alla malattia non ha mai fatto un passo indietro. Il grande travaglio del padrino delle stragi è tutto in una frase, anche questa rivolta a Lorenza, nel 2017:«Non sono un uomo perfetto, ma avresti potuto aspettarmi, ne valeva la pena. Forse avresti salvato quello che resta della mia anima. Ma non importa».
I deliri
Chissà se davvero una figlia avrebbe potuto far redimere un padre diventato il simbolo del male. Una cosa è certa, nei diari del boss c’è tanta malinconia, ma nessun segno di ripensamento per una vita da criminale. Scriveva: «Le mie solitudini sono piene di sensi di colpa verso i miei cari, ma non ci sono menzogne, come quelle che ho ricevuto io». E da criminale è morto Messina Denaro, nessun passo indietro ha fatto dopo avere incontrato in carcere la figlia, che ha riconosciuto ufficialmente, ora Lorenza si chiama Messina Denaro. Il cognome dell’ultimo padrino delle bombe: negli interrogatori fatti con il procuratore Maurizio De Lucia, l’aggiunto Paolo Guido e i sostituti Gianluca De Leo e Pierangelo Padova, ha continuato a negare. E a rilanciare, a sfidare. Perché, alla fine, è rimasto quello che si raccontava nei diari, un criminale preso da un delirio di onnipotenza, su cui si continua a indagare, per scoprire segreti e complicità.
«Il mondo è pieno di esistenze sconosciute – scriveva – io credo di essermi innalzato sugli altri». E ancora: «Essere incriminati di mafiosità, a questo punto, lo ritengo un onore». Un’altra annotazione: «Tutto quello che è accaduto nella mia vita non l’ho fatto per motivi personali, ma per ragioni superiori che vanno al di là del bene e del male».
Ancora un delirio, interessante da esplorare per comprendere la mentalità del mafioso: «Non posso girare l’interruttore e diventare un altro, sono ciò che ho vissuto nella mia vita. Tutti ce l’hanno avuto sempre con me, ma non importa, qualcuno che mi ama c’è. Credo di avere il fascino dei “fiori del male” di Baudelaire». Nel diario citava addirittura “Toro seduto, capo Sioux”: «Il guerriero è chi sacrifica se stesso per il bene degli altri». Una frase che nella testa di Messina Denaro rappresenta la mafia oggi: superata la stagione delle stragi, i boss sono alla ricerca di nuovi consensi nei quartieri e nella borghesia. Provando a far passare l’idea che è tornata l’epoca della mafia buona, ma non è mai esistita. «Io ho vissuto con una visione, con un’utopia», scriveva infine Messina Denaro. Il suo delirio più grande.