Corriere della Sera, 14 gennaio 2024
Intervista a Filippo Timi
Il mondo di Filippo Timi. Un attore nato nella povertà, che ha sofferto davvero la fame come nei film di Totò, e le discriminazioni. Filippo è colto, cita una bella massima di Nietzsche, «dal caos nascono le stelle danzanti». Canta, balla, dipinge, scrive, recita. È tornato su Sky e Now nella nuova serie I delitti del BarLume, con la regia di Roan Johnson. Filippo è il barista mezzo investigatore, finto burbero, sarcastico e ombroso.
Un po’ come lei...
«Le origini umbre hanno dato una mano, l’essere cinghiale mi appartiene già dalla voce. E si sposa bene col racconto e con quella specie di Quartetto Cetra che sono i vecchietti che a loro modo aiutano le indagini a Pineto, la cittadina immaginaria dove avvengono delitti, ma in un’atmosfera da commedia. Si toccano tabù, si gioca con la morte. Ed è già Goldoni. Il mio barista mezzo investigatore è un po’ sfigato, la fragilità innesca punti di contatto con le persone. Un grande attore lo è grazie alle difficoltà, le sfighe sono il tesoro. Abbiamo Orietta Berti come guest star Un cubetto di vitalità, la mattina gorgheggiava».
Sui set lei come accoglie e incarna le sue due fragilità fisiche?
«Per il morbo di Stargardt, che mi fa vedere solo i contorni, non riesco a inventare le immagini, ma è un tema. Quanto alla balbuzie, è meno forte però c’è ancora, a volte in scena non so se mi esce la frase. Mi costringe a un lavoro supplementare. Sono anche autoironico. La vita ti insegna che o soccombi, oppure le fragilità cerchi di usarle, e trovarvi un valore. Un fiore, su un sasso, spunta uguale. E il sasso è la vita stessa».
Non ha mai nascosto la sua omosessualità. Esserlo stato da giovane a Perugia?
«Io a 21 anni lasciai la provincia. Il mondo gay è importante per dare la possibilità di una scelta, creare la libertà. L’omosessualità resta un tabù. È una parola che fagocita il resto, per quel sessuale che trascina tutto verso la camera da letto. Io ho voglia di tenerla chiusa, anche quella della mi’ mamma. Prima, non si vedevano due uomini baciarsi, si raccontava ciò che poteva esserci ma solo di nascosto. Già identificarsi con qualcosa che doveva essere segreto mi spaventava. Quando mi chiamavano fr…era strano, era una parola che mi veniva sputata addosso con una colpa e un’accusa. Mi ha dato forza identitaria, anche se è stato difficile e doloroso».
E in casa?
«Non mi sono sentito protetto dai miei genitori, che sono stupendi. Non si sentivano in diritto di potermi difendere. Non ce l’hanno fatta. A tavola c’era un silenzio di noi tre sull’argomento. Erano omofobi e razzisti, senza farlo apposta. Mio padre faceva la battutina su Renato Zero, poi aggiungeva comunque è bravo. In quel “comunque” c’è tanto. Sai quando ti regalano il giocattolo ma senza le pile? Io non avevo le pile».
Col successo è cambiato qualcosa?
«È più semplice, non so spiegarlo. Non è cambiato nulla interiormente. Succede lo stesso in famiglie di Milano con possibilità massime, conosco chi ha dovuto abbandonare casa. Coltivo l’idea di superare il confine. L’ho fatto io e l’ha fatto anche mia madre, nata in campagna in un posto che non ha nemmeno un nome, diventare infermiera è l’Everest che ha scalato. Certi sguardi derisori addosso li ho sentiti anche pochi giorni fa in una macelleria. Inconsciamente, non hai voglia di vederli certi sorrisetti. Mi capita da quando, ragazzino, facevo pattinaggio artistico. Mia cugina ha la scatola cranica sigillata: mi ha fatto avere meno paura del diverso».
Non rivedo mai i miei film del passato, abbasso sempre
lo sguardo, non so perché
Ma anche
se ne avessi voglia, non riuscirei
a vedere nulla
Cosa lascia la povertà?
«Un senso di insicurezza. Dietro le mie spalle non c’è nessuno. Ricordo lo stupore per un cappotto di cachemire. Ancora oggi in alcuni provini mi fanno i complimenti e magari non mi prendono. Ma lavoro tanto, non mi lamento».
Alla Berlinale porterà «Dostoevskij».
«Un’altra serie di Sky. Sono stati sei mesi di un balletto di emozioni. Io sono un brillante detective dal passato doloroso che indaga su un omicida seriale soprannominato Dostoevskij per le lettere piene di dettagli macabri che lascia sulle scene del crimine. È diretta dai fratelli D’innocenzo, l’hanno scritta con grande invenzione poetica, c’è una didascalia che dice: in cielo un temporale feroce come un litigio tra fratelli».
Nell’Italia di oggi rifarebbe Mussolini?
«È un bel ruolo per un interprete. Dipende dal chi è il regista. In Vincere! avevo Bellocchio».
Rivede i suoi film?
«Mai. Impossibile. Abbasso lo sguardo. Non lo so perché. Anche se ne avessi voglia, tanto non vedrei nulla».
A febbraio fa 50 anni.
«Mi sento al centro, nella metà. Vediamo che metà sarà l’altra. È come se quel mio cappotto di cachemire si fosse un po’ imbiancato, però alleggerito».