Corriere della Sera, 14 gennaio 2024
Ha vinto William Lai
Lorenzo lamperti per la Stampa
«Se adesso ho paura di una guerra? No, se mai ci sarà una guerra ci sarà e basta. Non si farà per quello che è successo oggi». Chi-hui scuote i capelli bianchi e infila la bandierina rosa nel cestino della bicicletta. Sullo sfondo si canta «Lai Ching-te dongsuan», «eletto». Lai è il nuovo presidente, proprio lui che la Cina ha definito a più riprese un «secessionista radicale». Proprio lui che secondo il Kuomintang (Kmt), l’opposizione dialogante con Pechino, rischia di portare Taiwan verso un conflitto.
Lai ribalta la questione, mandando un messaggio a Pechino. «Il primo significato della mia vittoria è che Taiwan dice al mondo che tra democrazia e autoritarismo, noi scegliamo di stare dalla parte della democrazia», dice nelle sue primissime parole da presidente eletto.
Tra la folla che lo ascolta dominano il verde e il rosa, ma anche l’arcobaleno che ricorda che Taiwan ha legalizzato per prima in Asia i matrimoni tra persone dello stesso sesso, nel 2019. Un ragazzo in canottiera gialla tiene invece nelle mani due bandiere, quelle di Ucraina e Israele. Un modo per mostrare alterità dalla Cina continentale anche sul posizionamento in merito alle crisi internazionali.
«Io comunque per il parlamento ho votato il Kuomintang per bilanciare la situazione», dice ancora Chi-hui, mentre sta già iniziando a pedalare verso casa. Testimonianza del fatalismo, ma anche del pragmatismo, con cui i taiwanesi sono andati alle urne.
Lai, che si è comunque detto pronto al dialogo con la Cina e ha garantito di voler mantenere lo status quo, ha vinto col 40% dei voti. Un risultato storico, visto che è la prima volta che un partito vince le presidenziali per la terza volta consecutiva. Ma allo stesso tempo è un risultato che suona come un campanello d’allarme per il suo Partito progressista democratico (Dpp), che ha perso il 17% delle preferenze rispetto al 2020, vale a dire un patrimonio di due milioni e mezzo di voti passando dagli oltre otto di quattro anni fa ai cinque e mezzo di ieri.
Non solo. Il Kmt, il cui candidato presidente Hou Yu-ih si è fermato al 33%, diventa il primo partito in parlamento vincendo le elezioni legislative con 52 seggi, uno in più del Dpp che nel 2020 aveva stravinto 61 a 38. Il risultato non è comunque abbastanza per la quota necessaria a ottenere la maggioranza assoluta (57), tanto che il populista Ko Wen-je diventa l’ago della bilancia. L’ex chirurgo che piace tanto ai giovani potrebbe diventare l’uomo copertina dei prossimi anni: la sorte di riforme e budget di difesa passerà dai suoi otto seggi. Non a caso, ieri sera ha confortato i tanti studenti universitari e neolaureati presenti al suo comizio promettendo: «Tra 4 anni vinciamo sicuramente».
Sempre che intanto la vittoria di Lai, rimasto orfano del padre minatore quando era ancora bambino, non faccia arrivare al punto di rottura i rapporti con Xi Jinping. Di certo non mancherà la pressione militare. Già nei prossimi giorni possibile un aumento delle manovre di jet e navi sullo Stretto, anche se in molti considerano potenzialmente più rischiosa l’ultima fase del periodo di transizione che sfocerà con l’insediamento di Lai il prossimo 20 maggio. Nel frattempo, possibili anche altre mosse sul fronte commerciale, con un possibile aumento delle tariffe su alcuni prodotti taiwanesi. Di certo, appare difficile che Lai possa bersi un bubble tea con Xi, come aveva auspicato in una controversa intervista dello scorso agosto.
Nella sua prima reazione al voto, Pechino ha ribadito che la «riunificazione della madrepatria è inevitabile», ma ha anche sottolineato che «stavolta» il Dpp «non rappresenta l’opinione pubblica maggioritaria dell’isola». Sottolineatura inusuale che potrebbe garantire il rinvio della resa dei conti, provando a fare leva sulle divisioni politiche a Taipei e sperando che la posizione ribadita ieri da Joe Biden («Gli Usa non sostengono l’indipendenza di Taiwan») sia concreta. Camm inando tra i seggi, aperti al pubblico anche durante le operazioni di spoglio per rivendicare trasparenza totale, più che paura si respirava orgoglio per la partecipazione al voto. A prescindere dal partito o dai partiti prescelti. E poi, soprattutto, la voglia o la speranza di guardare al futuro. «Abbiamo sempre votato Dpp ma stavolta voto il Kmt perché a Lai preferiamo la sua vice Hsiao Bi-khim», dice una famiglia compatta. «Così speriamo che sia lei la candidata nel 2028». Come a negare che questo voto sia stato quello decisivo. E che tra quattro anni ce ne sarà un altro. —
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Guido Santevecchi sul Corriere
Taipei È William Lai Ching-te, il più odiato da Xi Jinping, il nuovo presidente di Taiwan. Il candidato del Dpp, il Partito democratico progressista con il quale la Cina ha chiuso da otto anni ogni canale di dialogo, ha ottenuto il 40% dei voti. Un distacco notevole rispetto ai due avversari che, pur dichiarandosi fedeli allo status quo (la separazione di fatto), invocavano maggiore flessibilità verso il Partito comunista: Hou del Kuomintang si è fermato al 33%, Ko che immaginava una terza via indefinita ha finito al 26%.
Non hanno avuto effetto le intimidazioni arrivate da Pechino, che aveva avvertito i taiwanesi a «fare la scelta giusta, per evitare la guerra», definendo Lai un «distruttore della pace». L’ufficio cinese che si occupa degli «affari taiwanesi», sognando di governarli un giorno, si è consolato osservando che Lai non ha la maggioranza assoluta (e non ce l’avrà nemmeno in parlamento) e questo dimostrerebbe che «la tendenza della riunificazione è inevitabile». Però, il successo di Lai ha alcuni aspetti straordinari che smentiscono la versione cinese: aveva contro anche la statistica politica di Taiwan, perché il suo Dpp era già al potere da otto anni, due mandati consecutivi e mai nella storia democratica un partito aveva ottenuto il terzo incarico successivo. Come mai un vicepresidente era riuscito a salire sulla poltrona presidenziale. Nella notte della vittoria Lai non si è fatto inebriare dalla folla che è accorsa a festeggiare il suo primo discorso da presidente eletto. Sa che il suo elettorato non vuole la «riunificazione» e si sente solo taiwanese. Ma ha voluto lanciare un appello a Pechino: «Possiamo sempre sostituire il dialogo allo scontro, sulla base di parità e dignità», ha detto. «La pace è senza prezzo e la guerra non ha vincitori».
Nella visione del nuovo leader dell’isola, accettando di ascoltare le ragioni dei taiwanesi, riducendo la tensione, Xi coglierebbe una grande opportunità: quella di tornare responsabilmente nell’ordine internazionale. «Noi abbiamo una sola speranza, continuare a vivere secondo il nostro modello democratico e libero, vogliamo rapporti sani attraverso lo Stretto». Non ha parlato di indipendenza, non lo fa più da anni: sa che Taiwan è sovrana di fatto, ha una sua moneta, controlla il suo territorio, emette passaporti che permettono ai suoi cittadini di viaggiare tranquillamente. Anche se formalmente l’isola non esiste come entità statale, perché la comunità internazionale deve riconoscere «Una sola Cina», quella comunista, in modo da avere rapporti commerciali e politici con la seconda potenza economica del mondo. A ben vedere questa pretesa di Pechino ha giocato contro le sue aspirazioni alla «riunificazione dei compatrioti», perché oggi la maggioranza degli abitanti dell’isola non ha alcuna ambizione a farsi etichettare come «cinese» e si sente «solo taiwanese».
Taiwan ha il rango di potenza industriale, invidiata e strategica perché dai suoi impianti esce il 90% dei microchip più avanzati, senza i quali l’industria tecnologica mondiale dovrebbe fermare le sue linee di produzione. Ed è ai primi posti negli indici di democrazia stilati dalle organizzazioni internazionali.
Il presidente americano Joe Biden ha promesso più volte di difendere l’isola, ma si aspetta anche senso della responsabilità da Taipei. «Noi non sosteniamo l’indipendenza», ha ribadito subito dopo il voto per non rovinare il tentativo di recuperare un rapporto con Xi. Il segretario di Stato Blinken si è congratulato con Lai e con il popolo taiwanese per aver ribadito la forza della loro democrazia, poi ha augurato «la soluzione pacifica delle dispute».
Lai, da oggi quinto presidente eletto dal popolo di Taiwan, ha ringraziato dicendo che è stata «una vittoria per la grande comunità delle democrazie». Si insedierà il 20 maggio.
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Guido Santevecchi sul Corriere
TAIPEI Come può reagire ora Pechino? Nei giorni prima del voto aveva ammonito brutalmente i taiwanesi a «fare la scelta giusta», perché l’alternativa «è tra pace e guerra». La bestia nera di Xi Jinping era proprio William Lai. Secondo Pechino, l’uomo che non sarebbe dovuto diventare presidente è «un indipendentista distruttore della pace»: significa che esauriti i metodi pacifici di persuasione alla resa, Xi potrebbe usare il suo Esercito di liberazione popolare per la «riunificazione».
Lai ha imparato la dote della cautela. Anche perché deve poter contare sull’appoggio degli Stati Uniti, che armano l’isola per scoraggiare un attacco militare cinese, ma vogliono evitare anche di distruggere la relazione con la Cina, faticosamente resuscitata da Joe Biden nel vertice di novembre con Xi Jinping. Così il presidente che una volta si definiva «lavoratore per l’indipendenza», ora parla di «sovranità di fatto, senza bisogno di proclamare l’indipendenza».
Il primo scenario possibile, quello migliore, è il mantenimento dello status quo che dal 1949 ha permesso a Taiwan di sottrarsi al controllo della nuova Repubblica popolare cinese proclamata da Mao Zedong al termine della guerra civile sul continente.
Lo status quo in realtà è stato eroso negli ultimi due anni, quando le forze armate cinesi hanno condotto due grandi esercitazioni a fuoco intorno all’isola, simulando un’invasione o un blocco aeronavale: due operazioni che scatenerebbero comunque la guerra. La prima dichiarazione cinese dopo il voto rientra nel rituale: «No alle manovre separatiste, ci opporremo con forza all’indipendenza». Poi un accenno alla disponibilità a «lavorare con le parti politiche interessate, persone e gruppi taiwanesi che vogliono migliorare gli scambi tra le due sponde dello Stretto». Una frase tutta da interpretare, e che potrebbe essere una mossa per ostacolare Lai, offrendo sostegno alle opposizioni nell’isola.
Ora, ogni giorno, decine di cacciabombardieri, droni, navi cinesi transitano nello Stretto ricordando a Taiwan e al mondo che la resa dei conti presto o tardi arriverà. Xi è fermo all’offerta del modello «Un Paese due Sistemi», lo stesso che è stato tradito a Hong Kong nel 2020 con l’imposizione della Legge di sicurezza nazionale cinese. È ovvio che nessun politico taiwanese e nessun cittadino dell’isola è disposto ad accettarlo, perché sarebbe la fine. Da otto anni, con il governo del Dpp della presidente Tsai e del suo vice Lai, Pechino ha tagliato il dialogo, intimidito militarmente Taipei, punito la «provincia ribelle» con provvedimenti commerciali che ne hanno danneggiato l’economia.
Gli analisti non si aspettano una immediata reazione muscolare di Pechino, anzitutto perché la stagione invernale (per quanto mite a Taiwan) non facilita grandi manovre navali nello Stretto. Xi ha comunque mesi di tempo per decidere la risposta: William Lai si insedierà il 20 maggio. Bisogna dunque segnare sull’agenda quel giorno per vedere quale sarà il livello della frustrazione cinese.
C’è un’altra variabile: gli Stati Uniti sono in campagna elettorale, Joe Biden ha bisogno di concentrarsi sulle aspettative di politica interna degli americani, se vuole restare alla Casa Bianca. Xi dunque ha tutto il tempo per meditare la sua prossima mossa.
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Guido Santevecchi
Davanti alle urne, dibattiti sulle posizioni politiche
È passando una giornata in questa scuola di Taipei, trasformata in seggio, che si capisce perché Xi Jinping vuole prendere l’isola e giura di essere pronto anche alla guerra. Otto ore di votazione, poi quattro di spoglio delle schede davanti a chiunque volesse assistere. Abbiamo visto tanti giovani che in attesa del risultato del loro seggio, dove si eleggevano anche i deputati locali, approfittavano del campo di basket dell’istituto per giocare. Un’aria da competizione sportiva e politica.
In Occidente siamo abituati a pensare che Taiwan sia un problema geopolitico, l’ennesima crisi, lo scontro tra le superpotenze Cina e Stati Uniti; sappiamo del grande valore strategico dell’isola nel mezzo delle rotte commerciali del Mar Cinese meridionale, dell’importanza vitale della produzione taiwanese dei microchip più avanzati, che forniscono il 90% del fabbisogno mondiale.
Ma non sono queste considerazioni che alimentano l’ansia di «riunificazione» a tutti i costi di Xi e che hanno spinto file ordinate di cittadini taiwanesi alle urne. Moltissimi i giovani, buon segno per la vitalità della società di qui e per la solidità della sua democrazia. Non è la geopolitica l’essenza della «questione taiwanese».
È proprio la processione di milioni di cittadini ai seggi, la voglia di incidere espressa anche dai ragazzi che allarma il Partito comunista cinese. Sono gli scrutatori che hanno provveduto allo spoglio delle schede e che abbiamo visto all’opera nella scuola professionale del quartiere Daan a Taipei, mentre ad alta voce, davanti a tutti, contavano i voti che non piacciono a Xi.
Pechino si opporrà all’indipen-denza, lavoreremo con chi vuole migliorare gli scambi tra le due sponde
Il Partito-Stato cinese ha tolto alla sua gente il disturbo di votare e anche di parlare liberamente. E in Cina nessun cittadino vedrà le immagini dei comizi pieni di folla, dei seggi affollati di giovani consapevoli di decidere il futuro, il conteggio ordinato dal quale è uscito il candidato con più sostegno popolare: tutto oscurato dalla censura statale. Ecco spiegata la «questione taiwanese»: è il sistema democratico di questa isola libera che parla cinese che Xi e il suo Politburo vogliono riunificare al loro, vale a dire cancellare. Ne hanno paura perché se lo vedessero, le masse cinesi un giorno potrebbero volerlo prendere come modello.
A Pechino, la popolazione non è chiamata mai a votare, i mandarini del Partito-Stato vengono selezionati in riunioni oscure. E quando Xi è diventato presidente per la terza volta, senza limiti di mandato, nella Grande Sala del popolo su Tienanmen è risuonata la voce di un ciambellano: «Nessun voto contrario».
Davanti al seggio di Taipei invece, la gente non aveva paura di parlare delle differenze di opinioni politiche, delle ansie per i salari che salgono meno del costo della vita, delle case troppo care, delle coppie che chiedono più assistenza sociale per mettere al mondo dei figli. E tutti i giovani di qui sono arrabbiati per l’arroganza della Cina, per questo si sono mobilitati in massa.
Una ragazza
I bunker vicini alle scuole? Non ci sono mai entrata, non voglio pensare di averne bisogno
Loro hanno capito prima di noi che la «riunificazione» invocata da Xi come «storicamente inevitabile» è un piano di soppressione del processo elettorale, prima di «rieducare» i cittadini taiwanesi (lo ha detto tempo fa un alto diplomatico cinese, senza vergognarsi né essere smentito dal suo governo).
A Taipei ci sono piccoli cartelli discreti che indicano i rifugi dove correre in caso di attacco aereo o di un missile, anche vicino alla scuola naturalmente. «Non ci sono mai entrata per vedere com’è, per fare una prova, non voglio nemmeno pensare che possa succedere di averne bisogno. E poi mio fratello ha vent’anni, non deve esserci una guerra», ci ha detto una giovane dopo aver votato, mentre aspettava che anche la madre uscisse dal seggio. Lei ha votato Kuomintang e dunque ha perso. Ma l’unanimità esiste solo nelle finte votazioni della Grande Sala del popolo a Pechino.