La Stampa, 13 gennaio 2024
L’addio alla buca delle lettere
Una buca delle lettere ci dev’essere ancora da qualche parte. Non ricordo dove, uno non ci fa più caso. Ma da qualche parte hanno pure messo un «avviso di rimozione», su carta gialla e scritta blu, i colori delle Poste, per dire che il suo utilizzo «sarà interdetto». Non è una parola buona, «interdetto». Ma il tempo che avanza come un carro armato non ha mai parole buone.
La vecchia cassetta verrà sostituita dalla Smart Letter Box, perché adesso bisogna chiamar le cose solo in inglese, che poi è una cassetta intelligente di nuova generazione con un sensore per consentire al portalettere di sapere se lì dentro c’è o no corrispondenza e altri sensori per rilevare temperatura, polveri sottili e biossido di azoto. Tutta roba che non interessava quando si scrivevano le lettere. Adesso carta penna e francobollo sono inutili. Persino la mail sta per diventare desueta. Serve per le comunicazioni ufficiali, ma il resto è tutto via chat. Le cartoline fanno sorridere. Chi mai oggi si sognerebbe di mandarli così i suoi saluti a qualcuno. Adesso si fanno i selfie. E allora uno cosa se la guarda a fare una buca delle lettere.
Oggi tutto funziona con le app. Si chiama Platform company alle Poste, e integra i servizi digitali con la rete fisica: prenoti un appuntamento, gestisci il tuo conto al cellulare. Meglio sempre in inglese, come il centro di smistamento automatico che si chiama hub, e sposta 250mila pacchi in un giorno. È la velocità che stordisce.
Quando nascono le Regie Poste, nel 1862, per essere assunto dovevi avere un titolo di studio e conoscere il francese. Niente inglese allora. E invece già nel 1818 il re aveva emanato un regolamento che invitava espressamente i cittadini «a gettare le lettere nella buca». A scuola le maestre insegnavano cos’era il risparmio e come mettere i soldi nel libretto. Toccava ai bambini spiegarlo agli adulti e ai vecchi. Oggi è più difficile spiegare le cose. Forse aveva ragione Cormac McCarthy, Non è un Paese per vecchi. Come diceva lo sceriffo Bell, c’è una nuova visione del mondo che «mi ha portato a un punto della mia vita dove non avrei mai pensato di arrivare».
È così che sparisce anche la buca delle lettere, ormai un reperto archeologico del nostro passato. Entro la fine dell’anno ne toglieranno più di ventimila, e si passerà quindi da 38.295 a 17.775. Quelle che ci sono adesso, rosse, con due feritoie e lo sportello che fa clac, sono entrate in funzione solo nel 1961, la prima volta a Napoli, l’8 aprile, sostituite al posto delle vecchie nell’arco di una notte. Forse siamo sempre andati così veloci. Però le prime buche postali sono comparse nel 1632, lungo le vie consolari dello Stato Pontificio, ed erano in pietra, con bordature in metallo e iscrizioni scolpite. C’erano figure mitologiche, infilavi la corrispondenza nella bocca di un leone. Sono rimaste lì quanti anni. Cento. Duecento. Qualcuno s’era messo all’opera con una mazza e uno scalpello e aveva fatto questo lavoro che poteva restare duemila anni se l’uomo non fosse andato così veloce. Devi avere una promessa nel cuore per fare una cosa così.
Quelle prime buche da lettere allora cambiavano il mondo. Con il Regno d’Italia sono arrivate le cassette, come le abbiamo intese fino ad ora. Prima erano verdi, poi sono diventate rosse. A Milano, negli Anni 50, erano bicolori, verde e panna, per armonizzarle con i colori dei tram che erano verdi. C’erano anche tram con le cassette sul fianco destro per la posta da portare alla stazione. Era solo ieri. Eppure sono immagini di un altro mondo. Il portalettere che arrivava in bici con la bolgetta sulla spalla e il fregio delle Poste sul cappello, ora ha una divisa fluorescente, un giaccone giallo che luccica. Oggi ha il palmare che funziona come uno smartphone, capace di integrare in uno strumento le funzioni per la consegna e per il pagamento, con un dispositivo di Sos in situazioni di emergenza. Col palmare il postino aiutava gli anziani pure a prenotarsi i vaccini. Si chiamano ancora portalettere anche se le lettere non ci sono più. E non è lo stesso mondo di prima, quando la postina Brusa Maria detta Eugenia entrava sulla sua bici o sulla slitta nei paesini della Val Formazza sommersi dalla neve con il suo grido di richiamo, «Postaaaaa!», portando con la corrispondenza anche le notizie dei villaggi vicini.
Oggi con internet anche le notizie volano e una scena così sembra assurda. Però se le donne portano i pantaloni, forse non lo sanno, ma devono dir grazie alle sciatrici e anche a Brusa Maria detta Eugenia. Aveva cominciato a farela postina negli Anni 30. D’inverno bisognava raggiungere paesini isolati anche con le tormente di neve. Eugenia indossava dei mutandoni sotto la gonna, che finivano solo per trattenere il ghiaccio. L’unica soluzione sarebbe stata quella di portare i pantaloni. Ma non si poteva. A quell’epoca il fascismo vedeva male le donne che lavoravano al posto di stare a casa a figliare, e la morale comune riteneva sconveniente che una signora mettesse i pantaloni. Fu grazie allo sport che venne superato questo pregiudizio, quando si permise alle sciatrici di partecipare ai campionati di discesa libera indossando i calzoni. Era il 1938. Maria Brusa prese coraggio e, confortata dal parere del parroco, don Vasina, cominciò a portarli senza dir niente a nessuno. Fu la prima donna delle Poste a farlo. Per dire che ci sono cose che raccontano anche la vita che verrà. Un paio di pantaloni. Una buca delle lettere. —