La Stampa, 13 gennaio 2024
Infermieri in fuga per soldi
«Wir bauen für ihre Gesundheit». Costruiamo per la vostra salute. Il cantiere viaggia spedito. Costi permettendo – sono già lievitati di un terzo rispetto alle previsioni – l’ospedale sarà pronto fra quattro anni: quasi 400 posti letto, sale operatorie all’avanguardia, centinaia di posti di lavoro.
Briga è un delizioso paese nel cantone Vallese: il confine italiano dista venti chilometri, è un crocevia logistico – la città d’approdo per chi esce dal traforo del Sempione – e turistico, ma ha appena 12 mila abitanti e appare difficile capire perché proprio lì, anziché nel cuore del cantone, la Svizzera abbia deciso di investire per rifare completamente e ampliare un polo sanitario. Ma se la scelta è caduta proprio a ridosso del confine una ragione c’è e dovrebbe allarmarci: servono infermieri. E li si prenderà dall’Italia.
Nell’ultimo anno il Piemonte ne ha persi oltre 400. «Cancellati dall’albo, tanti sono andati a lavorare all’estero», racconta Francesco Coppolella, coordinatore regionale del NurSind, uno dei sindacati di categoria, «stremati da condizioni inaccettabili e attirati da stipendi che l’Italia si sogna». Una buona parte ha attraversato proprio il Sempione, svuotando gli ospedali di Verbania e Domodossola. Tanti fanno i frontalieri: si lavora di là con stipendio doppio (o triplo) ma poi si torna a casa dove vivere costa meno della metà.
Annalisa Deregibus abita a Premosello, fra Verbania e Domodossola, ha trent’anni e per farsi assumere dal sistema sanitario italiano ha fatto la precaria per tre anni. Ha superato tre concorsi: «Prima a Domodossola, vicino a casa. Per avere il tempo indeterminato mi sono trasferita a Varese, in pronto soccorso pediatrico. Quindi Novara. Nel 2020 sono riuscita a tornare a Domodossola. Dopo tutta questa fatica non pensavo di dovermi trasferire un’altra volta». E invece da qualche mese lavora a Locarno. «Ho mandato il curriculum, mi hanno chiamata dopo una settimana: in un colpo solo mi hanno riconosciuto tre scatti d’anzianità; in Italia avevo colleghi con vent’anni alle spalle e nemmeno uno scatto». Lavorando 20 ore a settimana guadagna 2.400 euro rispetto ai 1.700 del suo tempo pieno in Italia, con le notti, i riposi saltati, le ferie impossibili. «Era diventato pericoloso: qui ho venti minuti per fare un prelievo, in pronto soccorso inserivo dieci canule. Non ci fermavamo mai. Ora ho due weekend liberi al mese, le ferie garantite. A me dispiace, l’Italia mi ha formata in maniera straordinaria. Ma non si può trattare così chi si sbatte. La gente pensa che ce ne andiamo per i soldi ma non sa che per noi è una sconfitta terribile».
I frontalieri della sanità hanno quasi tutti meno di trent’anni, spesso hanno abbandonato la prima linea, i pronto soccorso, e si portano dietro un profondo senso di sconfitta. Aurora Buratti ha 25 anni, abita a Intra e da giugno lavora in una casa per anziani in valle Ticino. Anche lei è fuggita dal pronto soccorso di Domodossola: «Era diventato insostenibile dal punto di vista fisico e psicologico. Lavoravo a dieci minuti da casa; adesso devo guidare 110 chilometri al giorno per un impiego meno soddisfacente. Mi rendo conto di sacrificare la mia professionalità, ma non me la sentivo più».
Difficile resistere quando da una parte ti costringono a turni massacranti e a saltare ferie e riposi per 1.800 euro al mese e dall’altra ti lasciano decidere quanto lavorare (part-time, tempo pieno, al 70%, all’80%). Anche Lorenzo Ricci, 28 anni, dal reparto di urgenza di Domodossola è finito alla Clinica Hildebrand di Brissago, uno dei principali centri di riabilitazione svizzeri. «Un giorno mi chiama un responsabile. Gli ho detto di no». E lui? «Mi ha chiesto se davvero stavo rinunciando a 5 mila euro al mese, il triplo del mio stipendio». Anche a lui è rimasto l’amaro: «Amavo il mio vecchio lavoro. E poi gli infermieri svizzeri sono diplomati; noi abbiamo la laurea e competenze maggiori. L’attaccamento alla professione che vedevo in Italia è raro. Però qui ti valorizzano. E ogni minuto in più viene pagato; per chi come me ha regalato ore alle Asl ha dell’incredibile».
Anche Lorenzo, come Annalisa e Aurora, ha lasciato l’Italia nell’ultimo anno, con effetti che nelle aree di confine cominciano a pesare in maniera devastante. Per avere un’idea dell’impatto su chi è rimasto basta ascoltare Filippo Garboli, infermiere in pronto soccorso a Verbania. «Nell’ultimo mese, quando abbiamo fatto i turni, mancavano 8 colleghi rispetto al fabbisogno, senza considerare eventuali malattie o assenze. A inizio dicembre in dieci giorni ho fatto quattro turni di notte. Quando sei a casa chiamano per chiedere se puoi andare prima, quando il turno è finito ti fermi ancora». «Se a livello di contratti non cambia qualcosa diventa difficile pensare di continuare a fare questo lavoro», spiega Franca Carrabba, infermiera e delegata della Cgil. «Facciamo turni massacranti, non riesci più ad avere una vita. I servizi sono tutti a contingente minimo: basta che un collega si ammali e il turno è scoperto. Si fanno più notti, più pomeriggi. Ma in queste condizioni le conseguenze sulla sicurezza sono inevitabili».
Secondo il Nursing Up, uno dei sindacati degli infermieri, all’Asl del Vco manca il 10% dei 750 infermieri in pianta organica. «E con l’ospedale di Briga la situazione peggiorerà», sostiene Milena Germano, referente per quest’angolo di Piemonte. «Già se ne vanno senza dare il preavviso, figuriamoci quando ci sarà un posto a venti minuti di navetta che offre condizioni di lavoro e salario imparagonabili». E chi resta? Rientri, turni allungati, straordinari. «I medici almeno hanno un riconoscimento economico e sociale. Noi siamo ancora considerati quelli che lavano le padelle. Come fai a trattenere le persone? Siamo sempre meno e lavoriamo di più: anziché 5-6 pazienti alla volta te ne trovi più del doppio. Ci sono colleghi in malattia da due mesi con diagnosi di burnout». Mancano anche i dottori. In questo caso la Svizzera c’entra poco ma le aree periferiche sono poco attrattive. Si ricorre ai gettonisti «ma così spesso oltre a fare il nostro dobbiamo sopperire alle lacune di dottori totalmente inesperti». La direttrice generale dell’Asl Vco si chiama Chiara Serpieri. È una manager che parla chiaro, senza infingimenti. «Quest’anno abbiamo coperto appena la metà degli oltre 40 posti del corso di laurea in Infermieristica, senza contare che tra chi si diplomerà un buon 50% cercherà lavoro altrove». La sua Asl ha 2 mila dipendenti: 350 sono medici, 1.200 professionisti sanitari, il resto tecnici e amministrativi. «È evidente che gli infermieri sono le gambe della sanità pubblica anche se tanta professionalità a volte non viene nemmeno riconosciuta. Facciamo miracoli, ma ci sono troppi vincoli: offriamo forme di lavoro rigide, senza agibilità personali, ed economicamente inadeguate. Se consideriamo responsabilità, rilevanza sociale e trattamento economico il bilancio per chi fa l’infermiere non è soddisfacente». Serpieri è stata tra i primi direttori generali a bussare in Regione per chiedere di riconoscere indennità aggiuntive ai lavoratori di confine, un po’ come sta facendo la Valle d’Aosta, che in via sperimentale dà 400 euro netti al mese in più agli infermieri. In Piemonte la risposta è stata negativa. «Ho trovato grande sensibilità sul tema ma le regole e i vincoli di bilancio non lo consentono. Eppure se vogliamo che le persone acquisiscano una professionalità, la mantengano e la spendano nel pubblico, dobbiamo ripensare i livelli economici e le rigidità del sistema. Perché uno dovrebbe restare se può fare lo stesso mestiere altrove con carichi di lavoro inferiori, meno vincoli e stipendi più alti? Non siamo competitivi con il privato, tantomeno con l’estero».
Roberto Faracchio ne è la prova vivente. Trentenne, da Salerno – dove è nato – si è trasferito dopo aver vinto un concorso all’ospedale di Verbania. «In pronto soccorso eravamo un bel gruppo. Si lavorava tanto ma fino all’esplosione del Covid tutto sommato bene. Dopo è cambiato tutto». Anche lui fa il frontaliero: lavora a Locarno, in pronto soccorso. «Già vivo lontano da casa, lavorare tanto e soprattutto male non aveva senso. Mi facevo carico di cose non di mia competenza, correvo rischi per me e per i pazienti di cui dovevo occuparmi». A Locarno fa i suoi turni e non solo: «Mi pagano la formazione. Anzi, mi spingono a farla. A Verbania invece dava fastidio che andassimo in università perché non potevano richiamarci in servizio».
I costi per il nuovo ospedale di Briga e per quello di Sion, il capoluogo del Vallese, sono già cresciuti da 462 a 580 milioni di franchi svizzeri, oltre 600 milioni di euro. Eppure nessuno ha intenzione di fermarsi. Anzi, la ricerca del personale è già in corso. «Niente concorsi, basta un colloquio. Ci sono agenzie specializzate ma soprattutto c’è il passaparola», spiega Milena Germano. «Vuol dire che chi è già di là chiamerà i suoi ex colleghi e i nostri ospedali si svuoteranno ancora di più». Annalisa Deregibus non ha dubbi: «Sarà un altro esodo».
Costruiamo per la tua salute, è il motto degli svizzeri. E alla nostra, ci pensa qualcuno? —