la Repubblica, 13 gennaio 2024
Ilva, la storia di un fallimento già scritto
Se c’è una data da cui fare cominciare questa storia, ecco, questa è l’alba del 2 agosto del 2012: la notte precedente l’Ilva era ancora quella dei Riva, il vulcano che si credeva inespugnabile, il gigante imbattibile. La mattina, con le sirene della Guardia di Finanza che suonavano, cambiò tutto: arrivarono gli arresti, l’impianto fu sequestrato, ma soprattutto per la prima volta i tarantini scoprirono che gli operai erano anche cittadini, e che insomma lavoro e salute non è vero che facevano fatica a stare insieme. Insieme c’erano già elle facce, nelle case, nelle storie di ciascuno di loro. Bisognava soltanto cambiare prospettiva: non può esistere salute senza lavoro. E nessun lavoro senza salute.
Da allora, 12 anni e 5 mesi, tante cose sono accadute: ci sono stati una dozzina di decreti “salva Ilva”, 37 sono stati i premier e i ministri che si sono occupati del dossier (da Mario Monti a Barbara Lezzi, e ancora Draghi, Fitto, Gentiloni, Renzi, Di Maio ci sono tutti), decine e decine sono stati i miliardi pubblici spesi, milioni le promesse, eppure siamo ancora lì, all’agosto del 2012. Sono cambiati i nomi, la fabbrica certo inquina meno (anche se è notizia di qualche giorno fa: i carabinieri sono tornati in fabbrica, avevano un decreto firmato da Mariano Buccoliero, uno dei pm della prima ora, ipotizzavano il getto pericoloso di cose, lo stesso reato in cui inciamparono per la prima volta i Riva), ma produce anche molto molto meno. «Praticamente spenta», dice chi la conosce. Ma anche chi, dati alla mano, si rende conto come quell’uno per cento di Pil, tanto valeva per l’Italia l’acciaio di Taranto, si sia ormai sciolto nelle nostre mani. Ustionandoci.
Ma di chi è la colpa? Lasciamo perdere i protagonisti: Calenda dice di Conte. Conte di Calenda. Il Pd punta il dito sulla destra, la destra sul centrosinistra, sembra la massa incandescente dell’acciaieria, impossibile fare distinzioni. La colpa è di chi non ha saputo decidere, certamente. E di chi ha fatto delle precise scelte sbagliate. Una domanda, per esempio: davvero quello che oggi sta accadendo non poteva essere immaginato? Davvero la scelta di affidare la fabbrica ad ArcelorMittal, che aveva già in mano tutte le fette di mercato europeo, è stata corretta? Il fallimento dell’operazione è dettato unicamente dalla scelta di mettere in discussione lo scudo penale – l’impunità, nei fatti, per l’azienda nello svolgere le attività previste dal piano – o invece qualcosa è partito male?
Agli atti c’è una relazione assai interessante, di cui Repubblica ha già avuto modo di parlare negli anni scorsi, che racconta un pezzo di questa storia, offrendo delle risposte a quelle domande. Risposte che lette oggi assumono un sapore politico particolare. La relazione è del maggio del 2017 e porta la firma dell’ingegner Carlo Mapelli, docente del Politecnico di Milano, un’istituzione in Europa quando si parla di acciaio e siderurgia. Mapelli era un consulente degli allora tre commissari governativi dell’impianto – Corrado Carrubba, Piero Gnudi ed Enrico Laghi – e gli venne chiesto un parere sulle due offerte arrivate per l’acquisto di Ilva, quella di ArcelorMittal (Am Investco) e quella di Jindal, acciaieria indiana che aveva al suo fianco Cassa depositi e prestiti. In quella relazione scrive Mapelli (che poi lascerà l’incarico: non volle cambiare una riga di quello che aveva scritto): «L’offerta di Am Investco non evidenzia gli investimenti per estendere la vita dell’altoforno 2, la cui assenza genera lacune produttive di circa 2 milioni di tonnellate l’anno». Dunque, immagina come poi effettivamente accaduto: la produzione cadrà: «Il documento – si legge ancora nelle tredici pagine di relazione – non indica risorse per installare forni perprodurre acciai di elevata qualità (come quelli per l’industria automobilistica)», pertanto il piano «fa dipendere Ilva fino al 30% da semilavorati di terzi, schiacciando la redditività». A tutte queste forniture da spedire a Taranto, tra l’altro, «il piano non dedica alcuna attenzione all’interazione tra aspetti ambientali e gestione logistica». Le carenze di produzione autoctona erano stimate, dalla perizia, «comportare un esubero di circa 2.000 persone in Ilva Taranto rispetto a quanto indicato» dal piano di Am Investco. Mapelli aveva inoltre previsto un’ulteriore riduzione della forza lavoro tra 1.800 e 2.000 persone, effettivamente realizzatasi a fronte dell’investimento da 45 milioni in tre anni per ricostruire l’altoforno 1, insufficiente e giudicato «non in linea con il suo rifacimento nell’arco di quattro o cinque mesi». Si parlava di ambientalizzazione. «Ma l’offerta – scriveva ancora il professore – si basa sull’uso del carbone, escludendo il gas e proponendo tecnologie a uno stadio di sperimentazione assai precoce o con spesa energetica elevata».
La relazione rimase lettera morta. E, per onestà, non era affatto detto (anzi, Mapelli stesso individuava diverse criticità) che l’altra offerta, quella di jindal, fosse migliore. O avrebbe portato ad altro. Certo è che persa l’ipotesi di prendersi Taranto Jindal si spostò, con la benedizione del governo Gentiloni, a Piombino (dove come dimostrano le vertenze in corso, le cose non sono andate affatto meglio). Mentre l’allora capa della cordata indiana trovò un nuovo lavoro: era Lucia Morselli, che nel giro di poche ore passò da Jindal ad Arcelor. Cioè dagli sconfitti ai vincitori. Questa, però, è un’altra storia.