Corriere della Sera, 13 gennaio 2024
Un partito orfano che cerca il padre. E ricorre sempre al Professore
«Di lui mi viene da dire ciò che Flaiano disse di Vincenzo Cardarelli: è il più grande poeta morente». Era il 2007, e Bertinotti affondò Prodi e il suo governo, già in agonia, con questa frase. In realtà si sbagliava. Morente non erano affatto né lui né la sua poesia, che continua anzi ad affascinare quel pezzo d’Italia, sempre più piccolo, che di notte sogna l’Ulivo e alla sera si ritrova nei circoli del Pd. Parafrasando Bertinotti-Flaiano, si potrebbe anzi dire che oggi Prodi è il più grande padre nobile vivente.
È ancora e sempre lui quello che chiamano quando bisogna risuscitare qualcuno o qualcosa, quello che indica le virtù del vero «democratico», quello che distilla l’ulivismo in purezza. Anche per mancanza di competitori, ammettiamolo. Di «padri» da quelle parti non ne è rimasto più nessuno. O non ci sono più, come Napolitano, o non sono ritenuti «nobili», vedi D’Alema. Alla stregua dei piccoli indiani di Agatha Christie, dei dieci segretari del Pd (Veltroni, Franceschini, Bersani, Renzi, Martina, Epifani, Orfini, Zingaretti, Letta, più l’attuale) nove sono inutilizzabili come padri, alcuni perfino come zii acquisiti, e prima che diventi «madre» la Schlein deve vincere qualche elezione. Al massimo c’è rimasto un cugino che ha dovuto emigrare all’estero, e di cui ora si teme il ritorno manco fosse il conte di Montecristo: al conte Paolo Gentiloni Silveri che non si candida a Bruxelles, Elly ha generosamente concesso di tornare nel Pd («è casa sua»), partito che lui ha fondato 17 anni fa e al quale lei si è reiscritta poco più di un anno fa.
Prodi, da parte sua, ricanta sempre la vecchia canzone, che è fatta di parole chiave come «pluralismo» (vuol dire che un partito solo non basta, ci vuole una coalizione per vincere); «federatori» (vuol dire che bisogna trovare un papa straniero come lui lo fu per Ds e Margherita, portandoli alla vittoria); «unità» (vuol dire che è sempre meglio perdere insieme che perdere da soli: nel 2018 scomunicò Liberi e uguali e sponsorizzò la lista «Insieme» del suo fraterno amico Giulio Santagata, appena scomparso, che ottenne lo 0,54%). Ma è pur vero che altri modi di tornare a Palazzo Chigi in questi 25 anni non ne sono stati trovati, se non quello un po’ da bullo di Renzi, che al solo nominarlo agli ulivisti gli viene uno stranguglione. E d’altra parte sono loro a cercarlo, come ha fatto Elly Schlein convocandolo d’urgenza alla Tiburtina per contrastare mediaticamente Elon Musk, che faceva la star ad Atreju. E sono loro a tentare di imitarne perfino lo stile conviviale convocando conclavi alla sua stregua, solo che lui li faceva in un convento a Gargonza, questi vanno alla Spa cinque stelle di Gubbio: dal monachesimo all’armocromismo.
Ritorno al passato
È lui quello che chiamano quando bisogna risuscitare
qualcuno o qualcosa
Prodi ci mette sempre il valore aggiunto del suo distacco idealistico, della sua «nobiltà» politica beatificata dal tradimento dei 101 giuda, che ormai lo porta a ostentare un aperto fastidio addirittura «antropologico» per la destra vincente. «Chiamare Musk significa vivere in un mondo diverso», ha detto qualche settimana fa, senza curarsi del fatto che nel mondo d’oggi Elon Musk è leggermente più in tendenza di lui. Oppure, per contrastare le «finte pluri-candidature» alle Europee di leader che non metteranno mai piede nel Parlamento per il quale chiedono voti, ha detto: «La destra lo può fare, un partito democratico no», dal che si evince che questa destra ai suoi occhi deve avere qualche tara anti-democratica. L’ostinazione poi nel riproporre il metodo ulivista cozza con la realtà di un’opposizione in cui – a voler riprendere la metafora delle parentele – Conte e Schlein si amano come genero e suocera, e Renzi e Calenda sono fratelli serpenti.
Ovviamente, ha spesso ragione. Come per le «finte candidature». Da uomo del passato vede nella progressiva perdita di credibilità della politica un male, perché genera astensionismo e populismo. Ma ai leader di oggi sai quanto gliene importa? E infatti la sua perorazione, rivolta più che altro contro Meloni, è finita per sembrare un colpo alla Schlein, che pure lei ipotizza di candidarsi fintamente in tutte e cinque le circoscrizioni. Con un corto circuito formidabile per la cultura democratica: perché così Elly, accettando la sfida a due di Giorgia, tira la volata al premierato; e perché la prima segretaria donna toglierebbe il posto nell’Europarlamento a cinque donne, visto che per la regola dell’alternanza di genere in lista al numero due ci sarà sempre un uomo e il seggio andrà a lui.
È uno degli effetti speciali dell’anacronismo che il ritorno di Prodi mette in luce. D’altra parte il suo posto nella storia il «professore» se l’è già conquistato. Come De Gasperi ci portò in Europa, lui ci ha tenuto in Europa, quando rischiammo di restare fuori dall’euro nascente. Ed è l’unico leader che sia stato capace di battere due volte un avversario come Silvio Berlusconi, e per due volte di essere accoltellato dai suoi alleati. È dunque ormai nell’Olimpo del centrosinistra. Normale che, quando scende tra i comunissimi mortali che adesso lo frequentano, la sua figura finisca più per ricordarci le miserie dell’oggi che le glorie di ieri.