12 gennaio 2024
Elogio della provincia
Una ventina abbondante di anni fa lasciai il Corriere della Sera, dove ero nato e cresciuto, per andare a dirigere La Provincia, il quotidiano di Como, Lecco e Sondrio. Nel giro dei saluti, andai a trovare anche Enzo Biagi, che aveva un ufficio all’interno della libreria Rizzoli in Galleria. Mi congedò dicendomi: «Non fare il New York Times, e nemmeno il Corriere. Lascia perdere il mondo, l’Italia e soprattutto la politica romana. Parla della signora Maria che è caduta dalla bicicletta.»
Una lezione della cui importanza mi resi conto già al primo giorno di lavoro. Alle sette della sera, riuniti i capiservizio per fare la prima pagina, avevo l’intenzione di aprire con un fatto nazionale, e non mi ricordo più neppure quale fosse. Al momento di decidere il “taglio”, cioè il titolo a metà pagina, il caporedattore Bruno Profazio mi suggerì di mettere la notizia di un incidente stradale nel quale era scappato il morto. «Un incidente stradale in prima pagina?», obiettai. «Guarda che tutte le persone del paese in cui abitava il morto domani non leggeranno altro», mi rispose Profazio. Mi ricordai delle parole di Biagi e mi fidai. Un paio di giorni dopo Aldo Arnaudo, che era il capo della diffusione, mi disse che con quella notizia in prima pagina avevamo venduto millecinquecento copie in più rispetto ai giorni precedenti.
Mi venne allora in mente un’altra lezione di giornalismo, che risaliva a qualche anno prima e che mi era stata impartita non da un collega, ma da un avvocato: Peppino Prisco, vicepresidente dell’Inter per una cinquantina di anni.
Ero andato a trovarlo a Forte dei Marmi, dove trascorreva le vacanze, e dopo la colazione andammo insieme all’edicola a comprare il Corriere della Sera. Lo aprì subito sulla pagina dei necrologi. «È la prima che leggo ogni mattina», mi disse: «Perché per me, che sono di Milano, non c’è notizia più importante di sapere chi è morto nella mia città; e in particolare se è morto qualcuno che conoscevo.» Anche Milano, la grande Milano, vive in fondo di microcosmi popolati da persone che si conoscono e che, pur nella fiumana che s’incontra e che travolge ogni mattina e ogni pomeriggio nelle strade, sui marciapiedi, sui tram e in metropolitana, rischiano a volte di potersi incontrare e perfino salutare.
Il giornalismo di provincia è stato il maestro che mi ha portato a conoscere davvero l’Italia, il nostro magnifico Paese che i grandi quotidiani raccontano sempre attraverso ciò che succede a Roma, a Milano, a Torino, a Genova, a Napoli, qualche volta a Venezia, Bologna, Firenze, Palermo: ma che è fatto di 7.901 comuni, ciascuno con le proprie frazioni, a loro volta orgogliosamente rivendicanti una propria identità.
Sempre nei miei anni a La Provincia di Como, imparai che le Ferrovie dello Stato erano state costrette a sopprimere la linea che un tempo univa, quando erano ancora nella stessa provincia, Como e Lecco. «È un ramo secco», dissero alle FS: «Nessuno di Como va mai a Lecco, e viceversa.» Ma imparai soprattutto che anche all’interno dello stesso paese ci si divide frazione per frazione, rione per rione, quartiere per quartiere, località per località.
Una mattina di un dicembre, durante la riunione di redazione, il caposervizio Mario Cavallanti annunciò una strabiliante notizia: il comune di Lurate Caccivio, poco più di novemila abitanti, aveva deciso di allestire un’unica luminaria natalizia. O meglio: aveva deciso che le luminarie sarebbero state uguali sia per gli abitanti di Lurate, sia per quelli di Caccivio. «Ma non è un unico comune?», domandai. «Sì», mi disse il Cavallanti: «Ma si trattava in origine di due distinti paesi, unificati nel 1753 con un decreto di Maria Teresa d’Austria. Gli abitanti di Lurate e di Caccivio si sono sempre sentiti due comunità autonome. Ed è la prima volta che decidono di fare le luminarie insieme.»
E d’altra parte scorrendo l’elenco dei comuni della provincia comasca ci si imbatte in molti di questi matrimoni forzati, imposti da qualche occupante straniero, o dal centralismo napoleonico, o dal fascismo, o più recentemente dall’esigenza di accorpare per risparmiare. Oltre a Lurate Caccivio, vediamo Albese con Cassano, Beregazzo con Figliaro, Casnate con Bernate, Claino con Osteno, Figino Serenza, Fino Mornasco, Gravedona ed Uniti, Lurago Marinone, Montano Lucino, Solbiate con Cagno, Uggiate-Trevano, Vertemate con Minoprio. Spicca spesso, in questi accorpamenti, il numero dei residenti, che resta esiguo pur dopo l’unione. Grandola ed Uniti, ad esempio, è un nome che fa pensare all’insieme non di due, ma di più comuni: eppure, in totale, gli abitanti sono 1.291.
Così è anche nella provincia di Varese, dove ho scelto infine di vivere.
Dal mio balcone di Luino vedo, voltando lo sguardo verso nord, Maccagno Inferiore, che sta sul lago, e Maccagno Superiore, inerpicato sui colli. Pochi metri li separano, ma gli abitanti si sentono parti di piccoli mondi differenti: anche se il Comune ormai non solo è unico per i due Maccagni, ma ingloba pure altri due paesi, così che la dizione esatta è: Maccagno con Pino e Veddasca. Gli abitanti, in tutto, sono 2.450.
E proprio in quella piccola area sorgono o meglio sorgevano altri due paesi poi riuniti in un unico comune, narrati da Piero Chiara ne La spartizione, quando parla del paese natale di Mansueto Tettamanzi detto il Tetta, padre delle tre zitelle che si sarebbero poi spartite il protagonista Emerenziano Paronzini: «Originario del paesello di Cogliano Superiore, sui colli dietro Luino, Mansueto Tettamanzi era il difensore naturale di tutte le cause, una ogni due o tre anni, che venivano promosse dai contadini del suo paese o di Cogliano Inferiore, che con quello superiore formava un unico comune chiamato Due Cogliani.»
Si tratta, in realtà, del Comune di Due Cossani, soppresso dal regime fascista nel 1928 e incorporato nel Comune di Dumenza, di cui oggi è frazione.
Neppure il pugno di ferro del Duce riuscì tuttavia a piegare gli orgogliosi abitanti di Quarna Sopra e di Quarna Sotto, due paesini sul lago d’Orta, e quindi oggi nella provincia di Verbano-Cusio-Ossola, che appunto il governo fascista unificò sotto il nome di Quarna. Ci fu una rivolta popolare, guidata soprattutto dalle donne, otto delle quali finirono in carcere, per restarvi un mese. Resta unificata la Chiesa: ma il parroco, che un giorno andai a intervistare nel periodo in cui ero a La Stampa, mi raccontò di dover celebrare ogni domenica due messe, una per quelli di Quarna Sopra e una per quelli di Quarna Sotto, perché l’appartenenza a un luogo è più forte di quella a una comune fede religiosa.
«Guardando i vecchi registri parrocchiali», mi confidò il prete, «non si trova traccia di un solo matrimonio fra quelli di su e quelli di giù. I quali si sono per secoli affrontati, sui due o tre tornanti che separano i due borghi, in battaglie a colpi di forconi.» Oggi il Comune di Quarna Sopra conta 249 abitanti e ha come sindaco l’Augusto Quaretta. Il Comune di Quarna Sotto ha 372 abitanti e, come sindaco, il Gian Mario Trapletti.
Lavoravo a La Stampa anche il giorno in cui andai, per un servizio, ad Alba, pro- vincia di Cuneo. Mi fecero subito sapere che fra albesi e cuneesi intercorre più o meno la medesima stima che c’è fra comaschi e lecchesi, o tra parmigiani e reggiani. «Pensi solo», mi disse un politico albese poi arrivato ai vertici della politica regionale, «che prima della Legge Merlin, quella che soppresse le case di tolleranza, ad Alba il bordello era in via Cuneo, e a Cuneo in via Alba.» Non ho mai controllato se sia vero o una boutade: ma se non è vero, come diceva Montanelli, è verosimile.
Piccolezze? Può darsi, ma ogni realtà umana è fatta di miserie e nobiltà, e la provincia offre, a chi ci vive, accanto ai particolarismi, l’impagabile ricchezza di far sentire ciascuno un individuo, e non un numero, come avviene nelle metropoli italiane e ancor più in quelle americane, o cinesi, o di ogni parte del mondo (cioè tutte) in cui ci siano grandi città.
A Luino, dove vivo, so che la farmacista è la Michela, la libraia è la Manuela detta Poni, il sindaco l’Enrico: e se in casa mi manca qualcosa – un cacciavite, una pentola, una corda, uno stendibiancheria, un tavolo, un letto, una tegola da cambiare, una piastrella, un tappetino, una pattumiera, un coltello, un ventilatore – so che c’è il Vanoli, un signore di cui credo nessuno conosca il nome di battesimo perché per tutti è appunto il Vanoli, titolare di uno di quei negozi ormai da decenni scomparsi nelle città ma ancora aperti in provincia, quei bazar dove si trova ogni cosa e dove si può sperare nella soluzione di ogni problema.
La provincia è un luogo, innanzitutto, dell’anima, e come tale può vivere anche in quelle città più grandi in cui è però rimasta la voglia, la gioia, la bellezza dello stare insieme. Quando ho chiesto ad alcuni amici bolognesi se si offendono quando viene definita provinciale la loro città, mi hanno risposto che, al contrario, di tale definizione si fanno un vanto, perché provinciale vuol dire anche, e soprattutto, essere un luogo, e una comunità, in cui nessuno è anonimo. In cui tutti sono persone, e molti sono personaggi. In provincia il soprannome conta, definisce più del nome.
In provincia si può ancora esercitare, come diceva Piero Chiara, il mestiere preferito a chi tiene per cara la vita: e cioè il vivere, semplicemente il vivere, non sopraffatti dall’angoscia del fare per non pensare. Il guaio dell’uomo moderno, diceva Pascal, è che non è capace di restare da solo nella propria stanza.
«L’inverno sul lago è dolcissimo, specialmente sulla sponda piemontese, che resta verde tutto l’anno. Ma la sera scende presto e non si poteva far altro, in quegli anni, che chiudersi in casa davanti ai camini a leggere, a conversare, a centellinare qualche vecchia bottiglia o semplicemente a guardare il fuoco.»
«Chi ha passato anche un solo inverno sul lago, in villa, sa quanta pace e quanta noia è possibile distillare ogni giorno. Lo spettacolo delle acque che diventano d’un azzurro d’acciaio e poi color piombo sotto le piogge invernali, la neve che compare sui monti, il sorgere e il tramontare del sole quando è bel tempo, il passaggio dei battelli, le giornate di vento che non mancano mai, il fiorire dei crisantemi, delle mimose, delle camelie e poi finalmente delle azalee, segna il passare della stagione. Dietro i vetri, tra i vecchi mobili dell’età delle ville, i pochi rimasti ad abitarle vedono passare il tempo come a nessuno è possibile nelle città e nei palazzi.»
Sono righe magistrali che Piero Chiara ha scritto ne La stanza del vescovo, e che parlano dell’incantesimo del mio lago ma, ne sono certo, anche di ogni incantesimo di ogni provincia.