Robinson, 12 gennaio 2024
Biografia di Monet
All’inizio del 1971 Robert Hughes, da poco nominato critico d’arte principale della rivista Time, stava buttando giù tutto nel suo attico al 143 cli Prince Street, a New York, quando ricevette una visita inaspettata. Era HenryGeldzahler, curatore per, l’arte moderna per il Metropolitan Museum. Hughes, probabilmente il più macho e battagliero fra i critici d’arte, era, come racconta lui stesso, sudato, di cattivo umore, coi piedi doloranti e «ricoperto cli sporcizia». Geldzahler, un «piccolo funzionario paffuto e dal sorriso gioviale […] [era] tutto pimpante nel suo completo carta da zucchero». Voleva vedere il suo attico. Hughes gli disse che non c’era nulla da vedere; Geldzahler insistette. Presero l’ascensore fino al quinto piano, dove c’erano solo polvere, sporcizia e cavi penzolanti. Seguì questa botta e risposta:
«Su, andiamo», disse Geldzahler. «Voglio vederla».
«La casa è questa, Henry».
«No, no. Dove la tieni?».
«Dove la tengo cosa?».
«La tua collezione. Voglio darci un’occhiata. La conservi da qualche parte?».
«Non c’è nessuna collezione, Henry. Non sono un collezionista. Mi spiace, ma non ho nessuna dannatissima collezione».
Geldzahler mi guardò incredulo.
«Be’», sospirò infine. «Mi sa che qui dentro c’è qualcuno che morirà povero».
Questo scambio di battute è riportato nel tagliente saggio cli Hughes sulla scena artistica newyorchese, Graft - Things You Didn’t Know. Il grande critico descrive un mondo in cui il denaro, o il denaro potenziale, spunta fuori da ogni parte e dove «l’intero mondo dei rapporti tra artisti e critici, critici e curatori - di tutto quello che ha a che fare con il mercato dell’arte e chi ci vive dentro - era allora e continua a essere in gran parte oggi una lastra di ghiaccio sottile, eticamente parlando». Il sommo sacerdote dei critici d’arte, Clement Greenberg, «non amava comprare opere d’arte, ma gli piaceva riceverle» da artisti e galleristi che aveva aiutato o poteva aiutare in futuro con le sue recensioni. Ma «il personaggio di gran lunga più corrotto che conoscevo a New York nel mondo dell’arte [...] era Henry Geldzahler». Quando il direttore del Met, Thomas Hoving, disse che voleva organizzare una mostra su Andrew Wyeth, Geldzahler era contrario, perché la pittura figurativa di Wyeth era agli antipodi rispetto all’arte in cui credeva lui e che voleva promuovere. Ma quando divenne evidente che la mostra sarebbe andata avanti comunque, Geldzah ler «Scrisse in privato allo stesso Wyeth, offrendosi di curare la mostra in cambio di un suo acquerello, purché glielo lasciasse scegliere. A merito dell’inflessibile Wyeth, va detto che la proposta venne respinta al mittente».
Più vicino a casa mia, c’era il caso di David Sylvester, forse il più importante critico d’arte della seconda metà del XX secolo. Hughes lo considerava un amico e riteneva che avesse una grandissima capacità di analisi; era anche il miglior allestitore di mostre del suo tempo. Ma era uno scrittore lentissimo, di «un’ostinata pigrizia». E gli piacevano le cose belle, motivo per cui commerciava privatamente in antichità, tappeti e disegni modernisti, come «approvvigionatore di semicapolavori ai ricchi e pignoli». Come racconta Hughes: «Pretendeva regali da un artista di cui si apprestava a omaggiare l’opera con una recensione; secondo Lucian Freud, che conosceva Sylvester da decenni, la tassa richiesta normalmente era di due opere – che potevano essere anche piccole, purché fossero di prima scelta – per un articolo».
È tutto assolutamente sconvolgente, e lo è ancora di più se si pensa che coinvolge critici e curatori che erano ai vertici del loro mestiere. Non erano uomini che faticavano ad arrivare alla fine del mese e ogni tanto forzavano le regole per poter mettere insieme il pranzo conia cena: erano, o erano diventati, istituzionalmente – e costituzionalmente – corrotti. Ma c’è da stupirsi? Il mercato dell’arte è internazionale e scarsamente regolamentato: i suoi prodotti sono facilmente trasportabili, stipati in porti franchi e prontamente trasformati in contanti. C’è una naturale abbondanza di truffatori, falsari e ladri. Artisti, mercanti d’arte, galleristi e critici spesso si scambia· no favori a vicenda: il valore (o quantomeno il prezzo) si sposta in continuazione, solitamente verso l’alto; e i super ricchi che vedono l’arte come uno status symbol sono sempre più numerosi. Autenticare un’opera è una cosa difficile e può avere un peso enorme. Che cosa possono fare il proprietario o il potenziale acquirente per ricompensare tanta perizia? L’esempio classico è quello di Bernard Berenson – il «disinteressato grande saggio goethiano di Villa I Tatti», per usare le beffarde parole di Hughes – che addebitava al suo committente il 25 per cento del valore di vendita di tutte le opere che autenticava. Oggi dietro ai nuovi ricchi ci sono consulenti d’arte: la deferenza può essere un problema, ma certe parti del lavoro devono essere piuttosto facili: Warhol, spuntato; Koons, spuntato; Basquiat, spuntato; Picasso, spuntato; Freud, spuntato; Banksy e Bacon, spuntato spuntato; e così via.
Quando e dove è cominciato tutto questo? Probabilmente a Parigi; più inaspettatamente, con l’arrivo degli impressionisti. Per secoli era stato il Salon a governare sul gusto, a decretare cos’era e arte e cosa no, e dunque a decidere quanto guadagnava la maggior parte degli artisti. C’era stato il famoso Salon des refusés, nel 1863, ma quell’esperimento di permissività imperiale non era stato replicato. Così gli impressionisti, seguendo l’esempio di Courbet, si organizzarono da soli le loro mostre, la prima nel 1874. Soldi ne guadagnarono pochi, ma pubblicità tantissima. Poco a poco, la presa mortale del Salon sul mondo dell’arte si allentò: tradizionalmente, alcuni collezionisti, quando vedevano un’opera nello studio di un artista, potevano offrirsi di acquistarla se la giuria del Salon la giudicava sufficientemente valida (e sufficientemente non controversa) da esporla. Contemporaneamente, entrò in scena una generazione di mercanti d’arte più giovane e innovativa, che andava a cercare nuovi acquirenti non solo sul mercato nazionale, ma anche al l’estero, in particolare a Londra e a New York. E poi c’era la stampa, con i critici e i giornalisti a caccia di scandali e notizie a effetto. Era arrivata la massa critica, quell’intreccio fra artisti, mercanti d’arte, critici e curatori con in più lo shock value dell’arte e un mercato in ascesa. Monet, come esponente più in vista del movimento impressionista e artista più quotato del gruppo, era il perno intorno a cui ruotava questo nuovo mondo. A un certo punto aveva tre o quattro mercanti che commerciavano le sue opere e si divertiva a metterli uno contro l’altro. Non ci sono prove dirette di truffe nel nuovo libro di Jackie Wullschläger, ma tutte le condizioni per la «lastra di ghiaccio sottile» di cui parlava Hughes erano riunite.
Monet è uno che sembra di conoscerlo da sempre. Da ragazzo avevo il poster di una delle sue raffigurazioni della cattedrale di Rouen, di quelle più tendenti al grigio, appeso alla parete della mia camera da letto; più o meno nello stesso periodo, comprai un LP di musica classica che aveva come copertina Il campo di papaveri. A trent’anni, quando aprirono al pubblico la sua casa, andai a visitarla e al negozio di souvenir comprai due piatti «giapponesi» (in porcellana di Limoges con il cerchio giallo – il giallo della sua sala da pranzo – e un bel bordo azzurro), che uso ancora oggi. È uno di quegli artisti che ho sempre ammirato, cullandomi nella convinzione di conoscerlo a fondo, ma al tempo stesso senza avere nessuna curiosità per la sua vita. La prima spiegazione per questa mancanza è il veniale (ma persistente) peccato della gioventù: gli artisti che vedi e ammiri per primi a volte li conservi in un bozzolo, senza mai rimetterli in discussione. La seconda spiegazione è forse più comprensibile: non esisteva e non esiste tuttora nessun mito personale intorno a Monet. Non è morto giovane, non si è tagliato l’orecchio, non ha nemmeno viaggiato in posti esotici: Londra (che amava, ma solo in inverno, quando c’era la nebbia) e Venezia (anche quella piacevolmente nebbiosa) sono i posti più distanti in cui aveva portato i suoi pennelli.
E dipingeva sempre a un livello altissimo, tanto che è quasi un sollievo vedere un suo quadro di feroce bruttezza come La giapponese (1876): lui sapeva e ammetteva che era «una schifezza», e possiamo presumere che non lo distrusse solo perché era un’immagine della sua prima moglie, Camille.
Fra sedici anni sarà il duecentesimo anniversario della nascita di Monet, eppure l’artista francese probabilmente rimane il modo migliore per introdurre un giovane all’arte, e non solo all’arte moderna. In parte è per quello che non dipingeva. Non faceva temi storici o religiosi: per apprezzare Monet non c’è bisogno di sapere che succede con l’Annunciazione (per non parlare dell’Assunzione della Vergine), o cosa disse Edipo alla Sfinge, o perché ci sono tutte quelle donne nude che presenziano alla morte di Sardanapalo. Non dipinse mai scene tratte da opere letterarie, che se non conosci la trama non capisci cosa stai guardando. Nessuno dei suoi quadri faceva riferimento a quadri precedenti. Fu il primo grande artista dal Rinascimento in poi a non dipingere mai un nudo. Ritratti ne faceva, ma l’identità della persona ritratta importava solo per lui. Non c’è bisogno di conoscere la storia dell’arte per apprezzare un quadro di Monet, perché lui stesso non era granché interessato alla storia dell’arte (anche se venerava Watteau, Delacroix e Velázquez). Era ancora meno interessato alla scienza della percezione visiva. La sua arte era laica e apolitica.
In Gran Bretagna, amiamo pensare che Turner sia stato un precursore dell’impressionismo: Monet negò sempre questa influenza. Lui partì da zero, un occhio nuovo in una testa nuova (ma che occhio, e che testa!). Manet aveva passato sei anni nella bottega di Thomas Couture; per Monet, semplicemente non era un artista sotto cui valesse la pena studiare. Non montò mai un cavalletto nel Louvre per copiare dai maestri. Frequentò per breve tempo una di quelle scuole d’arte in cui si pagava una piccola retta per starsene seduti a disegnare modelli dal vivo, con la visita settimanale di un artista più anziano che faceva i suoi commenti. Monet dipingeva quello che vedeva intorno a lui, che nella maggior parte dei casi (il fiume, il paesaggio, il mare, gli alberi, i giardini, i paesaggi innevati, una tavola da pranzo sotto il sole, persone che camminano attraverso un campo, covoni) sono ancora lì, o quantomeno sono lì i loro equivalenti; anche le città che dipingeva, o le parti delle città che dipingeva, non sono molto cambiate. La via per entrare nell’arte di Monet, insomma, è relativamente agevole.
E l’ultima cosa, fondamentale, è che è un’arte allegra, come quella di quasi tutti gli impressionisti. Vera, profondamente vera, il risultato di uno sguardo lungo e attento, ma una verità allegra. Riferendogli del successo della quarta mostra degli impressionisti, Gustave Caillebotte commentò: «Il pubblico è allegro, la gente si diverte con noi». Nel 1864 Monet trascorse sei mesi a Honfleur, inizialmente con il suo amico e collega impressionista Frédéric Bazille, lavorando dalle 5 del mattino alle 8 di sera. Bazille tornò a Parigi dopo qualche settimana e Monet lo esortò a tornare: «Qui, mio caro amico, è adorabile e ogni giorno scopro altre cose belle». Vent’anni dopo, Pissarro riassunse la prima serie di dipinti di Monet, con le parole: «Queste tele trasudano soddisfazione». Non compiacimento – questo sentimento non si trova da nessuna parte nella biografia di Jackie Wullschläger – ma la soddisfazione di aver trovato la soluzione giusta dopo una lunga lotta. Fra le ultime parole che lasciò scritte c’è uno scarabocchio tremolante nel libro di autografi della figlia di Paul Valéry, Agathe: «Tutto quello che posso dire è che dipingere è terribilmente difficile».
Monet offre anche un esempio istruttivo per quell’immaginario studente dei nostri giorni: un detrattore della prima mostra impressionista descrisse il nuovo movimento pittorico come «una guerra alla bellezza», ma oggi, se ci chiedessero di definire la bellezza o fornirne un esempio, potremmo cominciare da Impressione, levar del sole il famoso quadro di Monet del 1872, e proseguire con tutta la sua opera. E se lo studente dovesse rispondere che preferirebbe partire da autori meno lontani nel tempo di Monet, e non con la «bellezza», ma con qualcosa di più «ostico», magari l’espressionismo, l’astrazione o la scuola di New York, allora la risposta sarebbe: a) che Kandinskij concepì l’astrazione quando vide uno dei di Monet per la prima volta, a Mosca, negli anni Novanta dell’Ottocento («La pittura assumeva una forza e uno splendore fiabeschi. E gli oggetti, anche se inconsciamente, venivano screditati come elemento essenziale»); e b) che Barnett Newman, Ellsworth Kelly e sì, perfino Clement Greenberg, hanno tutti dichiarato che Monet è stato il maggior precursore del moderno astrattismo americano.
Le due cose «che tutti sanno» di Monet sono che dipinse la prima moglie sul letto di morte, osservando «la degradazione dei colori che la morte aveva appena imposto sul suo volto immobile», e il commento spregiativo di Cézanne, che sosteneva che «Monet è solo un occhio, ma che occhio». Jackie Wullschläger riporta entrambe le citazioni nel prologo, probabilmente per disinnescarle, visto che tutte e due sono facilmente fraintese. Lo straordinario dipinto di Camille mentre viene trascinata via dalla vita in un torrente di pennellate rosa e celesti non è una fredda distrazione professionale dall’evento, ma l’espressione di un grande dolore per mezzo di un grande sguardo. Quanto a Cézanne, gli impressionisti, come quasi tutti i gruppi artistici, erano spesso sprezzanti gli uni con gli altri, e Cézanne più di tutti: ma questo è l’unico suo commento critico su Monet di cui si abbia notizia. Che però rimase impresso al destinatario fino alla fine dei suoi giorni. In tarda età, quando stava diventando cieco, Monet disse che rimpiangeva i tre interventi chirurgici che aveva fatto per prolungare la sua capacità visiva, perché se fosse stato completamente cieco avrebbe potuto risparmiarsi di vedere i dipinti che stava distruggendo. « Sì, sono una persona difficile » , commentò ironicamente. « Di me dicono: “ Claude Monet è solo un occhio, ma che occhio”. Non vale più molto, ora, quell’occhio » .
Forse questi due aneddoti spiccano in mezzo agli altri perché la sua vera biografia, come considera la Wullschläger, è la biografia della sua arte. Ovviamente ebbe anche una vita, con tante traversie, due mogli che seppellì entrambe, figli maschi che non gli diedero soddisfazione, figliastre che lo adoravano e così via. Ma la sua vita privata non fu mai pubblica, neanche quando divenne talmente celebre che i giornalisti cercavano di seguirlo quando se ne andava nei campi a dipingere. Degas espresse il desiderio di essere « illustre ma al tempo stesso sconosciuto » , ma Monet probabilmente riuscì a esserlo più di lui. La biografia di Jackie Wullschläger lo descrive ottimamente e fa alcune deduzioni acute, lasciando al contempo un nocciolo duro di inconoscibilità ( che Monet sicuramente avrebbe approvato). La sua infanzia, di un’ « ordinarietà priva di eventi » , è relativamente poco nota. Non c’è nessuna fotografia o dipinto di lui da bambino. I lettori di biografie che di fronte ai capitoli sulla genealogia e i « primi anni » si stufano ancora prima di cominciare saranno lieti di scoprire che François Orchard, maestro di disegno al Collège du Havre, « non lasciò nessuna opinione sul suo irrequieto allievo » . Monet, secondo la sua stessa definizione, era un bambino « vagabondo » , che per quarant’anni non parlò mai della madre. I documenti scritti che ci sono rimasti ci restituiscono una visione molto di parte: lui buttava via le lettere degli altri, mentre loro conservavano le sue. Camille esiste solo nei commenti delle persone su di lei: c’è un’unica fotografia e niente che sia scritto di suo pugno, tranne un brandello di carta. Monet era sfuggente e contraddittorio quando parlava della sua carriera. Gli piaceva incoraggiare il mito che dipingesse soltanto all’aperto, quando in realtà molti dei suoi quadri necessitavano di un considerevole lavoro in studio, dopo che li aveva riportati a casa. Quando divenne più famoso, capì istintivamente come manovrare i giorna-listi, facendoseli amici ma al tempo stesso fuorviandoli. Il senso di tutta la faccenda, per lui, era che gli articoli sui giornali potevano portargli nuovi clienti.
Il suo carattere di fondo era quello di una persona forte ma chiusa: « Monet il taciturno » , secondo Thadée Natanson. Era molto concentrato sulla sua arte, spesso assente da casa; ma quando c’era, era ( abbastanza) concentrato anche su quella. Non veniva mai meno ai suoi doveri, a quanto pare, nemmeno per una settimana, e mai e poi mai è stato uno che correva dietro alle donne. Ebbe una prima moglie docile e una seconda combattiva, Alice, a cui diede del «voi» per dieci anni, fino a quando non la sposò e passo al « tu » . Anche se visse « nel peccato » con entrambe le consorti prima di sposarle, i suoi istinti e le sue azioni come padre e come patrigno erano abbastanza borghesi. Quando Germaine, l’unica delle figlie di Alice che ancora viveva a casa, voleva sposare Pierre Sisley ( figlio di Alfred Sisley, quindi un ragazzo che Monet conosceva dalla nascita), Monet e Alice glielo vietarono: Pierre, « un pittore di ancora minor successo di suo padre » , ai loro occhi era poco più di un caso umano. Non che questo atteggiamento avesse reso i loro figli maschi – Monet e Alice ne avevano due ciascuno – più fattivi: facevano a gara a chi era più inetto e scialacquatore; Jean, il figlio più grande di Monet, fallì perfino come piscicoltore.
Avevano le loro scuse, però. Come scrive la Wullschläger, erano «schiacciati dalla forza della personalità di Monet» . Il grande pittore era una presenza», il cui rovescio della medaglia trovava espressione in accessi di autocommiserazione. Alice, da parte sua, era afflitta ciclicamente da «manie depressive», piena di tristes humeurs, idée noires e «terribili attacchi di rabbia». Descriveva così gli «estremi sbalzi» di umore del marito: era «così duro che mi lasciava sconvolta. Nonostante tutta la sua dolcezza d’animo, è capace di ferirti enormemente». La figliastra Bianche lo definì «un carattere violento, molto energico, ma di buon cuore»; anche lei dipingeva, e spesso lo faceva accanto a lui, ma lui non le consentiva mai di usare tele delle stesse dimensioni sue. Gli abitanti di Giverny, e non c’è da stupirsi, lo trovavano «distaccato».
Monet non è mai stato soltanto un occhio. Era un pittore di cuore e di cervello, di sentimento e di memoria. In età avanzata, quando lavorava sulle Ninfee, disse all’amico Gustave Geoffroy: «Sono al di là delle forze di un uomo anziano, ma voglio riuscire a rendere i sentimenti che mi suscitano». Fu l’unico impressionista a percorrere fino in fondo il tragitto da soggetti sociali realistici (Zola non riuscì a spingersi più in là con lui) a paesaggi tratteggiati con pennellate più ampie e ombre viola, a esplosioni di colori sempre più intense, alla repentina originalità delle serie di dipinti con i loro effetti cumulativi, fino al tremolio, l’evanescenza e la vertiginosa bellezza del semiespressionismo delle Ninfee. Era un’arte spinta ai suoi limiti, tanto che molti (fra cui lo stesso Monet) hanno cercato paragoni con la poesia e la musica, in particolare con Mallarmé e Debussy. Monet era sempre più l’incarnazione della massima poetica di Mallarmé: «Dipingere non la cosa, ma l’effetto che produce».
Quand’era povero, si comportava come un ricco insopportabile: se ne andava in giro elegantemente vestito e aveva modi imperiosi, se la filava regolarmente dagli alberghi a notte fonda e non pagava i conti, neppure quelli del corniciaio e della lavandaia. Il suo sarto era «il prestigioso Auld Reekie» a rue Neuve des Capucines. Mentre Camille impegnava i suoi gioielli, lui ordinava «tra venti e trenta litri» del miglior cognac per la famiglia. Ma quando divenne ricco, si comportò come un ricco di buon cuore. Mentre un tempo scroccava senza limiti e senza ritegno da pittori più facoltosi come Bazille e Caillebotte, ora si mostrava generoso con i colleghi che si trovavano in difficoltà, come Pissarro. Non ruppe i rapporti con gli amici, nemmeno quando si schierarono sul versante opposto dell’affaire Dreyfus. Si impegnava pubblicamente, come quando guidò una campagna di sottoscrizione per raccogliere 20.000 franchi per assicurare alla nazione
l’Olympia di Manet. Amava il lusso: il mercante d’arte Paul Durand-Ruel diceva che nella sua casa di Giverny si può gustare «la miglior cucina di Francia». Lì aveva sei giardinieri alle sue dipendenze, uno dei quali aveva il compito di spolverare e lavare le ninfee (Monet pagò anche per far asfaltare la strada pubblica che passava accanto al giardino con le vasche, per ridurre la polvere). Gli venne il capriccio delle automobili e degli sfarzosi cappotti di pelliccia; Alice lo soprannominò «il marchese». Essendo famoso, ora incontrava altre persone famose, per esempio Winnaretta Singer, l’ereditiera del colosso delle macchine da cucire, che sposava solo principi. Winnaretta comprò due quadri di Monet e fece la donazione più importante – 2.000 franchi – per la raccolta fondi per l’Olympia. Ma non sembra che Monet si lasciasse coinvolgere più di tanto dalla frequentazione di queste persone. Nel 1901 era a Londra e Sargent gli organizzò un invito per assistere al funerale della regina Vittoria da una casa di fronte a Buckingham Palace. Il suo interprete, in quell’occasione, era nientemeno che Henry James.
Un incontro potenzialmente affascinante, eppure nessuna delle biografie di James ne fa cenno. Questa vita sociale non attenuava in nulla il persistente senso di disciplina artistica di Monet: a quasi sessant’anni, usciva ancora di casa alle tre e mezza del mattino per dipingere i suoi Mattini sulla Senna.
Nel 1900 Renoir accettò la Legion d’onore. Sapeva che Monet disprezzava questi ciondoli e gli scrisse una lettera piagnucolosa dicendo che sperava che un nastro di seta non avrebbe rovinato la loro amicizia. Qualche giorno dopo se ne pentì e gli scrisse di nuovo: «Mi sono reso conto oggi, e in realtà già prima, di averti scritto una lettera stupida [...] Cosa può mai importarti se sono decorato oppure no [...] Sicuramente mi conosci meglio di quanto io conosca me stesso, dal momento che io, molto probabilmente, ti conosco meglio di quanto tu conosca te stesso». Quest’ultima osservazione è profondamente saggia, e si può applicare non solo alla loro impressionistica amicizia, ma anche alla stesura di una biografia, e ancora più in generale a tutti quanti noi.
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