Corriere della Sera, 12 gennaio 2024
Piranesi, polemista inquieto
Gli addetti ai lavori lo sanno benissimo ma il grande pubblico forse lo ignora. Il cavalier Giovan Battista Piranesi, sommo disegnatore, incisore e architetto veneziano, visionario narratore degli splendori archeologici romani ma anche inventore delle Carceri e dei Grotteschi (che lo resero, diremmo oggi, ricco e famoso tra i suoi contemporanei) era anche un letterato, autore delle prefazioni alle sue raccolte grafiche. Non semplici indicazioni ma testi critici e, soprattutto, fortemente polemici: veri e propri interventi nel merito del ricco dibattito che nel Settecento divideva gli studiosi dell’Antico tra sostenitori della superiorità della civiltà etrusco-romana rispetto al retaggio della Grecia, che in quel periodo si stava affermando. Di fatto un Piranesi che difendeva a spada tratta un’identità, diciamo così, indigena, nata e cresciuta in Italia e che secondo l’autore andava rivendicata con orgoglio e decisione.
Sono materiali raccolti e analizzati in Piranesi gli scritti, l’ultimo saggio Electa di Pierluigi Panza, firma culturale del «Corriere della Sera», docente al Politecnico di Milano e da anni studioso del grande artista veneziano (sua la ricerca Museo Piranesi, Skira, prima raccolta sistematica di tutti i marmi da lui restaurati, che valse a Panza nel 2017 il premio European Union Prize for Cultural Heritage/Europa Nostra Awards). L’autore raccoglie la prefazione al Della Magnificenza ed Architetture de’ Romani (1761, con 38 tavole) e poi il Parere su l’architettura/ Dialogo di Protopiro e Didascalo del 1765, il testo Della introduzione e progresso delle belle arti in Europa ne’ tempi antichi, sempre del 1765, e del Ragionamento apologetico in difesa dell’architettura Egizia e Toscana del 1769, una introduzione a una serie di tavole. E poi, come vedremo, c’è dell’altro. Sforzo divulgativo che serviva probabilmente, ci racconta Panza, non certo ad arricchirsi (Piranesi era già molto famoso ed economicamente solido, avrebbe provveduto in futuro il figlio Francesco a polverizzare il patrimonio paterno, vendendo tutti i marmi restaurati e collezionati) ma ad accreditarsi come possibile candidato alla prestigiosa carica di commissario alle Antichità e Belle arti di Roma come successore di Johann Joachim Winckelmann. Quei testi, da lui firmati ma realizzati materialmente col supporto di altri eruditi del tempo suoi estimatori ed amici, non lo portarono all’incarico (poi affidato a Giovanni Battista Visconti, che passò alla storia come riorganizzatore dei Musei Vaticani del tempo) ma lo collocarono al centro di una fertile e tesissima polemica intellettuale internazionale. Piranesi si opponeva a chi, in quel periodo, predicava il primato dell’arte greca e del suo gusto, allora di gran moda come riscoperta relativamente recente, su quella romana ed etrusca.
Orgoglio nazionale
«Mi maraviglio che si diano alcuni italiani che ammirano solo le opere pellegrine e straniere»
Piranesi ne faceva una questione di orgoglio nazionale. «Mi maraviglio per tanto, che si diano alcuni italiani, i quali non facciano verun conto di quel che v’è delle opere Toscane, o Romane, ed ammirino soltanto le pellegrine e straniere: come sé e la Toscana e Roma fosiero affatto prive d’ingegno e d’industria, ed avessero ricevuto ogni cosa in grazia dalle nazioni forestiere, ed in ispezie da’ Greci. Si diano pure le dovute lodi a ciascheduna delle altre nazioni; giacché l’Italia non invidia la altrui grandezza: ma, che gl’italiani dispregino il loro, e che non si amino scambievolmente, come soglion far gli altri popoli, ciò sembra giustamente doverli avere per cosa nuova». Alla complessità della prosa del tempo si aggiungono, avvisa con ironia Panza, «punteggiatura, accenti, apostrofi poco corretti» e lasciati nei testi come nell’originale. La polemica si accese (ecco il resto del libro) e il collezionista ed editore francese Pierre-Jean Mariette replicò a Piranesi con una puntigliosa lettera agli autori della «Gazette Littéraire de l’Europe» in cui prova a stroncare le tesi piranesiane con un semplice ragionamento: «Gli Etruschi, che erano Greci di origine, non sapevano di arte e non eseguivano niente se non quello che era stato insegnato ai loro padri nel paese da cui provenivano». E poi, più perfido ancora: «Dal momento in cui ebbero messo piede nelle case dei Greci, riconosciuta la loro comodità, ammirata la maestà dei loro templi e dei loro edifici pubblici, i Romani non si occuparono d’altro se non del mezzo con cui procurarne altrettanta alla loro patria». Se per l’inquieto e attivissimo Piranesi la romanità andava esaltata come vertice assoluto per l’arte antica, c’era chi fieramente gli si opponeva nel nome della classicità greca. Un duello senza esclusione di colpi che rende plasticamente l’idea della qualità e del livello del dibattito culturale che aveva come arena l’intera Europa intellettuale.
Nella raccolta degli scritti di Piranesi, e nei saggi introduttivi di Panza, c’è moltissimo altro. Per esempio la libertà dell’artista nei confronti dei desideri del committente, il contrasto tra inventio e imitatio, cioè tra composizione creativamente libera e, invece, adesione a canoni e regole. Quanto basta per rendere il sommo incisore-architetto un modernissimo anticipatore del nostro stesso modo di guardare all’Antico.