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 2024  gennaio 12 Venerdì calendario

Gli scienziati del giallo

Quando ci immergiamo nelle trame di Sherlock Holmes, chi ci spinge a continuare a leggere non è, come si potrebbe pensare, il cerebrale Sherlock, ma il fallibile Watson, più empatico e più umano. Per risolvere il mistero infatti servono entrambi: il romanzo giallo, così come il metodo scientifico, è una questione di tentativi e di genio collettivo. E anche saper ridere, soprattutto di se stessi e del proprio ambiente, non guasta. La pensano così due tra i più amati scrittori italiani, Licia Troisi e Marco Malvaldi. Lei, Licia Troisi, astrofisica e amatissima autrice fantasy, esce ora con il suo primo giallo per Marsilio. Si intitola La luce delle stelle e ha protagonista un giovane astronomo, Gabriele, alle prese con un delitto in un osservatorio nel deserto. In occasione di quest’esordio, l’abbiamo fatta incontrare (su zoom) con lui, Marco Malvaldi, chimico di formazione, giunto al successo con i romanzi del BarLume, scuderia Sellerio (il più recente è La morra cinese), poi diventati una serie tv; di recente ha pubblicato per Giunti il mistery storico Oscura e celeste, che vede in scena Galileo Galilei e la figlia Virginia. Ma quindi il mix tra scienza e giallo funziona? E se sì, perché?
Partiamo da voi: due ricercatori diventati autori bestseller. Dove è il segreto?
Licia Troisi: «Ho scritto il primo libro prima di laurearmi, poi ho continuato durante e dopo il dottorato. Le due vocazioni vanno in parallelo. Ora mi dedico alla scrittura, ma scrivere soltanto rischia di diventare alienante, perché è un lavoro che si fa in solitudine. Quindi il legame con la scienza resta fondamentale, e lo mantengo attraverso la divulgazione».
Marco Malvaldi: «Praticamente per me è lo stesso. Ho scritto il primo libro durante la tesi di laurea, ho fatto ricerca fino al 2012, il mio ultimo articolo è del 2022. Ora faccio il battitore libero, a parte il fatto che ho cinquant’anni, e che le idee nuove non le avevo prima figurati ora, però resto incollato alla scienza perché mi fa bene al cervello. Noi scrittori, e credo che Licia mi capisca quando dico questo, viviamo in un mondo autoreferenziale. Fare scienza con persone a cui non importa chi sei, sia che ti chiami Malvaldi, sia che ti chiami Genoveffa Tarquini, ti costringe a venire a patti con la realtà».
Fantasy, giallo: il genere implica delle regole. Il vostro background vi ha influenzato, magari anche aiutato?
L.T.: «Io mi sento portata per la narrativa di genere, mi ci sento a mio agio. Il background aiuta nel dare la disciplina che serve per creare mondi coerenti. Lo diceva Umberto Eco che quando scrivi un romanzo crei un mondo».
M.M.: «I lettori resterebbero stupiti dal numero di pagine che buttiamo via. Per ogni pagina che finisce in un libro, almeno una la butti nel cestino. E lo scienziato sa che l’errore è naturale esito dei primi tentativi. Insomma, in tutti e due i casi ciò che fai è raffinare il materiale finché il risultato non ti soddisfa. Ci sono delle belle pagine di Primo Levi ne Il sistema periodico su questo».
A proposito di errori e di ignoto: entrambi i vostri libri hanno a che fare con le stelle...
L.T.: «È l’aria del tempo. Sono appena state rinviate le missioni Artemis per la Luna... c’è un grande interesse mediatico, e forse deriva dalla percezione collettiva della precarietà della vita sulla Terra. Ho paura che qualcuno pensi che adesso che abbiamo mandato in vacca questa casa, ce ne andiamo a cercare un’altra...».
M.M.: «Mi sono dedicato a Galileo perché ho letto il suo carteggio con la figlia Virginia, che si fece monaca con il nome di suor Maria Celeste. Si interrompe proprio nell’anno in cui Galileo pubblica Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, perché Galileo va a stare vicino al monastero della figlia. Quindi c’è un buco. E qui il romanziere ha una fortuna mostruosa; può usare quello che è stato scritto prima e dopo, però nei buchi può mettere quello che vuole...».
Scrivere gialli quindi è fare ipotesi sui buchi di una storia?
M.M.: «Si, è fare ipotesi, è unire i pallini per fare uscire la figura, anche senza necessariamente usare i numeri che ci sono scritti, come in quei giochi da bambini. Il romanzo di genere funziona così: ti metti da solo i paletti e poi fai lo slalom, alla Stenmark o alla Tomba, basta che funzioni».
L.T.: «I paletti servono, eccome. Se l’idea non la iscrivi all’interno di un perimetro non hai modo di aggregare la storia. I limiti sono fonte di ispirazione, incanalano la creatività».
Nel suo romanzo, Licia mette in bocca al suo protagonista che “fare l’astronomo è un po’ come fare il detective. Hai le prove e devi tirare fuori la legge che le unisce”. Ma è davvero così? Quali sono le somiglianze e le differenze?
M.M.:«Nella ricerca scientifica l’interpretazione è figlia di un’assunzione. Già su tre oggetti che si attraggono tra loro abbiamo bisogno di fare delle approssimazioni, di dire “secondo me va così”. Hai delle misurazioni che inscrivi in una costruzione coerente, ma non puoi sapere se quello che stai misurando è tutto e solo quello che ti serve. Così come in un’indagine poliziesca reale non sei certo se ciò che sai è ciò che ti servirebbe, e nemmeno se ciò che sai è vero, perché le persone mentono, e i testimoni possono non essere affidabili anche se sono sinceri. Nel gioco del giallo sei nella comfort zone; hai tutto quello che ti serve e sai già la soluzione...».
L.T.: «Il giallo è un puzzle e chiama in causa il lettore perché provi a risolvere il mistero. E molti ci provano. Io non ci riesco mai...».
Insomma non vi identificate con Sherlock Holmes...
L.T.: «Lui fa delle deduzioni evidentemente impossibili, e tutto si basa sulla eccezionalità della sua mente. Puoi solo identificarti con Watson».
M.M.: «Se ragioni come Sherlock sei un sociopatico di livello...».
I vostri investigatori sono di un’altra pasta, fanno ridere...
M.M.: «Sono noto come giallista, ma nella mia testa mi reputo un umorista; uso bastardamente i due generi. Quando scrivo, è come se facessi la telecronaca alla storia, un po’ stile Gialappa’s. Commento dal di fuori e in maniera un po’ avulsa dal contesto. E non voglio fare ironia, voglio fare umorismo, ossia non ridere di qualcuno, ma con qualcuno. In realtà prendo in giro me stesso e le persone che mi circondano; nel BarLume, ad esempio, Aldo è come mi immagino che sarò a 80 anni se ci arrivo: il suo essere molesto, fissato con una musica inascoltabile, convinto di sapere tutto, che parla lento… mi immagino così. Per fare ridere si cerca di capire come il modo in cui cambia il mondo ci espone al ridicolo. Ad esempio, per via dei social, oggi siamo molto più portati a dire ciò che pensiamo, anche quando sarebbe proprio il caso di tacere».
Quindi si fa ridere con ciò che si conosce meglio?
L.T.: «Essendo il mio un esordio nel giallo, non aveva senso che mi prendessi troppo sul serio. L’umorismo è un punto di vista: volevo raccontare tramite il giallo un ambiente che conosco, i giovani ricercatori stressati dalla competizione, le storture di un sistema incarnate in questo caso dalla scienza, ma in realtà diffuse in modo pervasivo nella società in cui viviamo. Però non volevo annoiare, e così ho scelto un registro leggero, e ho messo accanto a Gabriele, che va facilmente fuori di testa, una “spalla” responsabile, Mariela, il medico dell’osservatorio».
M.M. «I nostri sono, per così dire, degli investigatori collettivi, gli uni senza gli altri non andrebbero da nessuna parte. Ma infatti che cos’è il genio? Lasciami citare Amici miei: il genio è fantasia, intuizione, colpo d’occhio e rapidità d’esecuzione».