La Stampa, 10 gennaio 2024
Intervista a Maurizio Ferrini
Ogni tre anni, cambia casa. Non si cura dell’età (70 anni), men che meno degli acciacchi («tanto poi passano») ma soprattutto continua a sognare in grande, alzando sempre l’asticella. «Sa come si dice? Mirare alle stelle, per finire al lampione», scherza Maurizio Ferrini che, con la sua signora Coriandoli, sta vivendo una seconda giovinezza artistica. Ospite fisso a Che tempo che fa sul canale Nove, da venerdì approda anche su Rai Uno, in prima serata: Virginia Raffaele l’ha voluto al proprio fianco in Colpo di Luna. «È un momento di rinascita», ammette Ferrini, «si vede che alla veneranda età di 70 anni sono infine maturato. Però mica mi accontento, sa?».
A cosa punta?
«Ho un motto: “Sogna il sogno più grande che hai, raddoppialo e poi triplicalo, dopodiché realizzalo”. Finora ne ho già realizzati quattro: far ridere, riuscirci a livello nazionale, interpretare personaggi che controllo solo io, senza la mediazione di altri, prendere parte a uno show di successo con persone a me affini. Ora punto al quinto sogno: tornare a fare l’attore in un film tutto mio».
È arrivata l’ora di dire basta alla signora Coriandoli?
«Questo mai! Lei resta fondamentale. Semplicemente sotto la cenere si sta muovendo anche il Maurizio attore: ho in cantiere una serie di progetti e vediamo se Ferrini riuscirà a eguagliare, o superare, la Coriandoli. Sono due persone diverse, ognuna con il proprio percorso artistico».
Cosa c’è sotto la cenere?
«Preferirei non dirlo, sono un po’ scaramantico. Diciamo che forse adesso ci sono le condizioni per produrre, dirigere e recitare un film tutto mio. Entro l’anno realizzerò una mostra di mie opere artistiche».
Non si arrende alla pensione?
«Sarebbe un errore: gli artisti devono andare avanti a creare, finché possono. L’attività rende vivi. Perché i Rolling Stones si chiamano così? Perché un proverbio inglese recita: “La pietra che rotola non fa il muschio”. Infatti loro sono giovani perché continuano a cantare».
Ma lei all’inizio non sognava di fare il medico o il grafico?
«È vero. Capii solo a 26 anni che volevo fare l’attore. Però una cosa mi era chiara fin da subito: dovevo essere indipendente. Una volta, al liceo, il professore mi chiese cosa volessi fare da grande e la mia risposta fu: “Non voglio lavorare sotto padrone”. Sono fatto così: voglio fare di testa mia. Cerco l’indipendenza in tutto, peccando forse di un eccessivo controllo».
Non di narcisismo?
«Se c’è, non è conscio. Più che altro voglio fare quello che credo giusto, non quello che la gente si aspetta da me».
Un battagliero.
«Da sempre. Pensi che dai 14 ai 27 anni ho sofferto di balbuzie. Incappai in un medico delinquente che mi prescrisse, come cura, il Serenase: un anti ipnotico. Nel giro di un anno diventai catatonico, ho persino rischiato la bocciatura. Eppure, l’ho vinta io. Ho lasciato la cura, e ne uscii con la sola forza di volontà. Mi sono detto: non subisco la balbuzie, sarà lei a subire me. Così feci della parola la mia arma. Lì capii che nella vita tutto è rovesciabile».
Ha lavorato con Arbore, Dino Risi, Boncompagni, Ricci: cosa ricorda di ognuno di loro?
«Sul set de Il commissario Lo gatto, a Favignana, Dino Risi continuava a fissarmi. Se ne stava lì, zitto, e mi guardava. Poi, a un certo punto, si avvicina e dice: “Maurizio, tu hai un cranio da criminale”. E lui aveva la competenza per dirlo, dato che era laureato in psichiatria».
Arbore invece?
«Mi prese per Quelli della notte salvo poi chiamarmi e dirmi: “Secondo me ci chiudono subito”. Ne era convinto. Debuttammo il 25 aprile e fino a fine mese nessuno si pronunciò: né in bene né in male. C’era un silenzio stampa totale. Poi a maggio uscì un articolo sul Corriere della sera sulle lotte sindacali che titolava: “Non capisco ma mi adeguo”. Era la mia battuta. Lì svoltai: mi chiamavano due volte al giorno per propormi qualsiasi film, delle più bizzarre nature».
Ha ammesso di essere stato travolto dalla fama: eccessi compresi?
«Se si riferisce a droga e alcol, no. La mia famiglia e l’educazione ricevuta mi hanno reso invulnerabile a queste cose: davanti a un chilo di cocaina, io chiamo i carabinieri. Quanto all’alcol, mi fa male: sono un uomo allegro, con un “tono” alto di mio, che il vino tende invece a spegnere».
E con le donne?
«Be’, le occasioni aumentarono ma io mi diverto di più se mi innamoro. I legami toccata e fuga mi piacciono solo a parole: di fatto, non li cerco».
È un uomo esigente?
«Molto. Cerco l’eccellenza anche in amore. Pur sapendo di essere un colabrodo, chiedo sempre il massimo dalla vita: o la donna è bellissima e intelligentissima, oppure resto da solo. In un mondo come quello italiano che invita ad adeguarsi, io non mi adatto a nulla. Sogno sempre in grande».
Cercando il massimo, ha commesso però degli sbagli come dire no a Sergio Leone. Quale fu la reazione del regista?
«Quando rifiutai, Leone disse: “Scusi, può ripetere per favore?”. Giustamente non se ne capacitava. Tempo dopo incontrai Francesca Leone e scoprii che a casa loro ero noto come “quello stronzo di Ferrini”. Ci sta, me lo merito».
Tra gli errori commessi, possiamo includere anche l’Isola dei famosi?
«La feci per disperazione. All’epoca mi seguiva Lele Mora e accettai per avere visibilità: mi vergognavo ma era un modo per fare conoscere l’uomo oltre la maschera. La calunnia di Arianna, che millantava abusi da parte mia, ha fatto il resto: l’Italia si schierò con me e arrivai secondo».
Più lontano possibile, come vorrebbe essere ricordato?
«Se mi definissero un artista, sarei un uomo parecchio felice». —