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 2024  gennaio 10 Mercoledì calendario

Cosa insegna Acca Larentia

Qual è il sottinteso dello scontro sui saluti romani di via Acca Larentia? È evidente: da un lato, dimostrare che Giorgia Meloni e il gruppo col braccio disteso sono nella sostanza sovrapponibili: stesso ceppo, stesse vicende personali che si mescolano, solo astuzie tattiche per far sembrare diverse le due metà della mela. Dall’altro, chiarire invece che il presidente del Consiglio e il suo partito quasi non conoscono i manifestanti del Tuscolano, militanti di CasaPound e Forza Nuova, segmenti estremisti dell’arcipelago nero. Di certo non condividono la messa in scena, pur esprimendo come avviene da 46 anni, dal 1978, cordoglio per i tre giovani missini assassinati nel clima di guerra civile degli “anni di piombo”.
Sono due tesi poco conciliabili, destinate ad approfondire le fratture fra destra e sinistra, nell’atmosfera d’intolleranza ereditata dal decennio Settanta. Sullo sfondo s’intravedono i nomi dei due intellettuali a cui risalgono di fatto le differenti analisi politiche. Il primo è Renzo De Felice, lo storico dell’era mussoliniana, tutt’altro che un “revisionista”: semplicemente uno studioso che volle collocare il regime autoritario e liberticida all’interno della vicenda nazionale. E la conclusione era che le sorti del fascismo coincidevano con la vita del suo fondatore. Morto lui (e nonostante la fiamma sorgente dalla tomba, inglobata nel simbolo del neonato Msi), era morto anche il fascismo. Poi nel dopoguerra hanno preso forma fenomeni di radicalismo di destra da contrastare con la politica e non con l’ideologia. Lo storico fu investito da sferzanti polemiche, come è noto, finché a difenderlo scese in campo un nome indiscutibile: Giorgio Amendola, intervistato sul “Corriere” da Giuliano Ferrara.
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L’altro nome è quello di Umberto Eco, il grande scrittore le cui conclusioni furono opposte a quelle di De Felice e Amendola: il fascismo “è eterno”, risorge di continuo dalle sue ceneri e costituisce una minaccia permanente alla democrazia. Le vicende odierne ripropongono il dilemma. Se si accetta l’idea del fascismo “eterno”, si appende una spada di Damocle su tutti i governi di destra, a maggior ragione se hanno nella loro storia i saluti romani: governi in via tendenziale sempre illegittimi, perché nelle loro radici si annida il male assoluto. Ora, è vero che l’epilogo del Msi-An (poi FdI), fu il congresso di Fiuggi e una svolta il cui obiettivo era governare a pieno titolo con Berlusconi. Ma una dose di ambiguità rimase, sufficiente a corroborare l’accusa perenne. E non aiutano, è ovvio, le dichiarazioni inopportune del presidente del Senato: il nodo non riguarda il saluto come reato e nemmeno la ricostituzione del partito fascista, che non è certo all’ordine del giorno. Ma il fatto che sia inaccettabile l’esibizione in sé: in Italia come nel resto d’Europa. È vero, da 40 anni si va avanti con le istituzioni e i governi, quasi sempre di centrosinistra, che hanno lasciato correre. Ora il ministro degli Interni s’indigna e tuttavia bisognerebbe chiedere anche ai predecessori: tutti frenati, si suppone, dell’infamia senza colpevoli perpetrata nel ‘78 in via Acca Larentia. Peraltro due colpe non fanno una ragione.
Forse bisogna riconoscere un altro aspetto: la presidenza Meloni è figlia inconsapevole della prima tesi, quella di De Felice. Il fascismo non potrà risorgere e quindi il problema della destra è sottrarsi alle spinte radicali, così da costruire con tutte le difficoltà del caso una forza conservatrice vicina ai Popolari europei. Troppo ottimistico? Al momento sì, ma è l’unica via praticabile. Purché si eviti che sia Donzelli a dire l’ultima parola. Quei “duecento imbecilli” del saluto romano saranno senz’altro tali, ma chi li stigmatizza è lo stesso che difese il viceministro vestito (“per scherzo”) da Ss nazista.