La Stampa, 9 gennaio 2024
La parabola di Chiara Ferragni
Adesso bisognerebbe fare uno sforzo per evitare i soliti moralismi prêt-à-penser, e magari anche per rispettare la sacrosanta presunzione d’innocenza. Ma per molti Chiara Ferragni è il classico personaggio che si adora detestare almeno quanto si detestano i suoi adoratori: troppo ricca, giovane, bella e di successo, con l’aggravante di aver fatto tanti soldi con il suo misterioso business di influencer, mestiere che a noialtri diversamente giovani evoca semmai l’aspirina. Si sa che per l’italiano medio, catechizzato dalle due chiese, quella cattolica e quella comunista, la ricchezza è l’unico peccato davvero imperdonabile. E se proprio i soldi ci sono, devono essere guadagnati con il sudore della fronte, sgobbando fra sacrifici deamicisiani e immani fatiche. Di certo, non spalancando l’occhione azzurro su Instagram in quanto famosa per essere famosa, impegnata «acca ventiquattro», come si dice a Milano (la sua storia è tipicamente milanese, benché lei risulti nata a Cremona, evidentemente per caso), a promuovere un prodotto che si chiama Chiara Ferragni.
Troppo di tutto, davvero. E troppo in fretta: primo blog nel 2009, copertina di Vogue nel ’14, la Barbie Chiara Ferragni nel ’16, praticamente una bambola al quadrato, Forbes che nel ’17 la incorona «influencer di moda più importante al mondo», nel ’21 la serie tivù «The Ferragnez». Già, perché nel frattempo c’era stato anche il matrimonio, ovviamente da favola, con Fedez il rapper (in questa vicenda non c’è nessuno che faccia un mestiere spiegabile con una parola italiana), poi diventato nel frattempo anche icona della sinistra più indignata e arrabbiata, il che forse spiega perché vinca la destra. E naturalmente subito arruolato in quella specie di Truman show che è la vita in casa Ferragni, dove i testimonial non sono solo i Ferragnez ma anche le sorelle e la mamma di lei e pure i pupi, sbattuti sui social praticamente dal primo vagito, fra polemiche violentissime e accuse di sfruttamento dell’Instagram minorile. Neppure Dickens aveva mai fatto tanti soldi con i bambini, e nemmeno senza bisogno di maltrattarli. Ma, in fin dei conti, anche i Windsor chiamano la loro famiglia «la ditta». Finché, l’anno scorso, è arrivata la consacrazione nazionalpop con Amadeus che chiama superChiara a co-condurre due serate di Sanremo, anche con ghiottissimi gossip perché Fedez all’Ariston limona Rosa Chemical, maschietto benché fluidissimo nonostante il nome, lei si irrita e la Nazione spettegola per giorni, anche con pensosi editoriali: con la lingua o senza?
E dunque, oggi, che Schadenfreude collettiva, che maligna felicità voyeuristica in questo spettacolare rovesciamento di sorti, un Manzoni cotto e mangiato: dall’altare alla polvere in un clic. E per un pandoro che si chiamava, manco a dirlo, «Pink Christmas» (e qui, bisogna dirlo, chapeau a Selvaggia Lucarelli, altro personaggio indigesto a molti: ma la notizia l’ha tirata fuori lei). È un bollettino della vittoria al contrario. La procura di Milano indaga Ferragni per truffa aggravata per il pandoro poco benefico, ci sono sospetti anche sulle uova di Pasqua e sulla bambola Trudi, la Coca-cola ferma lo spot già annunciato, Safilo e Monnalisa interrompono la collaborazione e sulla vetrina del negozio romano, anzi, scusate, dello shop, compare la scritta «truffatrice»: un’indignazione popolare che non si vedeva dai tempi delle monetine a Craxi. Lei, dopo le scuse contrite in tuta grigia da ergastolana (subito vendutissima, però) e l’annuncio del milione riparatore pro ospedale pediatrico, si era presa una lunga pausa sui social, una cosa inimmaginabile, come se Mastrota rinunciasse ai materassi o Salvini al ponte sullo Stretto. E ci era appena tornata in tutta la sua bionditudine, in compagnia della mamma e del cane, personaggi cui gli italiani sono notoriamente sensibili. E invece è arrivata la mazzata dalla procura, e a Chiara non è rimasto che dirsi serena, assicurare «piena fiducia» nella magistratura e attaccare i giornalisti, insomma come qualsiasi assessore preso con la tangente in saccoccia o deputato con la pistola ancora fumante.
Resta l’impressione di un arcano contrappasso, di una fatalità da tragedia greca o da film hollywoodiano benpensante. Ferragni è stata colpita e forse sarà affondata in quel che aveva fatto la sua fortuna: il brand di sé stessa. Il vero patrimonio di Ferragni era la sua faccia, e il fatto che ce la mettesse, tutto il giorno e tutti i giorni, per pubblicizzare ogni genere di prodotto (ma, beninteso, se dei gonzi li comprano perché gliel’ha detto Ferragni, lei fa benissimo a venderglieli). Però l’immagine è un’arma a doppio taglio. Sì, in tutto questo c’è qualcosa di inesorabilmente biblico: chi di immagine colpisce, d’immagine perisce. Ma, appunto, si vorrebbe evitare il moralismo. —