il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2024
I 25 anni dell’Euro
Ogni Stato ha a disposizione tre importanti leve di politica economica: il tasso d’interesse, il tasso di cambio e la politica fiscale. Dopo l’introduzione dell’euro, i primi due sono stati delegati a livello europeo mentre il terzo è stato sottoposto a vincoli di austerità. In un colpo solo, gli Stati europei hanno perso una quota rilevantissima di sovranità. Essa, tuttavia, è stata solo in parte trasferita a livello Ue. L’euro, infatti, è una moneta senza Stato e, quindi, senza ministero del Tesoro: la perdita di strumenti di aggiustamento delle economie nazionali non è stata controbilanciata da trasferimenti fiscali. Per non parlare del fatto che la mancanza di reali processi democratici all’interno delle istituzioni Ue ha prodotto un vulnus catastrofico alla legittimazione europea.Sono 25 anni da quando l’euro è stato introdotto e ancora non si è generata una riflessione adeguata sulle sue conseguenze. In effetti, in Italia non c’è mai stato un vero dibattito sul tema, nonostante molti economisti ci avessero messi in guardia sulla costruzione così malfatta di una moneta unica. L’euro, infatti, è stato interpretato dalle classi dirigenti italiane più come uno strumento di politica estera che di politica economica: un modo per agganciarsi al treno del “vincolo esterno” europeo per non rimanere isolati. Troppa era la paura di un’incapacità dell’Italia di dotarsi di un vincolo interno affidabile. L’anno del Trattato di Maastricht fu quello delle stragi di mafia, di Tangentopoli, della speculazione contro la lira: c’era l’impressione diffusa che lo Stato fosse in liquidazione e l’euro parve un nuovo collante politico, una via di risoluzione del conflitto sociale.
E così, in parte, fu. Ci dovremmo però ora chiedere quale sia stato il costo di questo vincolo. I dati economici sono tutt’altro che esaltanti. E non solo per l’Italia – sicuramente l’economia che meno si adattava alle impostazioni ordoliberali volute dalla Germania. L’Area Euro in questi ultimi 25 anni ha performato peggio di quasi tutte le aree del mondo, è rimasta indietro nello sviluppo tecnologico, ha perso centralità geopolitica, ha visto crearsi un gap d’investimenti significativo rispetto alla Cina e agli Usa. Anche internamente i risultati sono scadenti. Più che diminuirle, l’euro ha aumentato la divergenza tra Paesi. Ha creato una sovrastruttura burocratica che fa sembrare l’Urss un’agile start-up. Ha fondato organismi inutili e dannosi come il Mes. Ha piegato interi Paesi con una logica di austerità poliziesca, riferendosi a teorie economiche superate. Ha plasmato un intero continente sul modello neomercantilista tedesco fondato su bassi salari e bassi costi energetici (almeno finché il fornitore era la Russia). In sostanza, un modello economico da paese emergente applicato all’area più ricca del mondo: un suicidio. La marginalizzazione geopolitica che ora vive l’Europa è, quindi, intrinsecamente legata alla marginalizzazione economica in corso da 25 anni: andrebbe finalmente capito che l’unità senza solidarietà non è sinonimo di forza ma di debolezza.
Anche sul miracoloso potere dell’euro di preservarci dalle speculazioni ci sarebbe molto da discutere. Negli ultimi 30 anni, infatti, le due più grandi speculazioni contro l’Italia sono avvenute a causa dell’integrazione monetaria europea. L’attacco contro la lira del 1992 fu consentito dalla difesa da parte delle autorità monetarie italiane di un tasso di cambio insostenibile all’interno del Sistema Monetario Europeo, il padre dell’euro. L’attacco speculativo del 2011 fu dovuto all’azione della Banca centrale europea che fece intendere ai mercati che non sarebbe intervenuta a difesa dei titoli di Stato italiani: l’Italia fu degradata da Stato sovrano a colonia e i mercati agirono di conseguenza.
L’euro è stato insomma un fallimento politico prima che economico. La cosa che desta più preoccupazione, perciò, è la totale “tabuizzazione” di questo tema all’interno del dibattito italiano. L’euro è divenuto un grande surrogato teologico-politico. In mancanza di legittimazione interna, le classi politiche hanno guardato all’euro come il sostituto di quella fede politica che oramai era perduta. Non c’è da meravigliarsi, infatti, che i più grandi sostenitori siano stati i post-comunisti e i post-Dc. Entrambi avevano perso la fede politica (il crollo del Muro e Tangentopoli). Entrambi hanno visto nell’euro un modo per ridarsi una direzione di senso senza interrogarsi sul passato.
Ora, però, i nodi stanno venendo al pettine. I dati materiali gridano vendetta. La retorica perde efficacia. Allora, ci dovremmo chiedere: si potrà riaprire in Italia una discussione franca sull’euro? Questa è l’unica cosa che ci dovremmo augurare per i prossimi 25 anni.