La Stampa, 8 gennaio 2024
Intervista a Dacia Maraini. Parla di Elsa Morante
Il 16 giugno del 1974, Il Messaggero pubblica un’anticipazione del nuovo romanzo di Elsa Morante, il terzo, La Storia. Nell’occhiello, c’è scritto: «L’epica dei tempi moderni: dove definitivamente gli eroi non sono coloro che manovrano la macchina del potere, ma quelli che la subiscono». A curare la pagina, deciderne i dettagli e la titolazione, è stata Morante in persona: il caporedattore delle pagine di Cultura, Ruggero Guarini, le ha dato libertà su tutto, sapendo che soltanto così la scrittrice gli avrebbe accordato la sua fiducia, e l’esclusiva. Morante non pubblica un romanzo da 17 anni. L’attesa per La Storia, al quale ha lavorato per quattro anni, è grande ma nessuno immagina che, per tutto l’anno a venire, se ne parlerà ovunque e con foga. Sui giornali escono 350 articoli, molti critici ne scrivono come di un reato, un attentato morale; gli scrittori litigano selvaggiamente, finiscono delle amicizie; alla gente, lettori forti e deboli e non, fa impazzire. Paul Hoffman, corrispondente in Italia del New York Times, scrive: «Non era mai successo prima che le persone, negli scompartimenti ferroviari e nei bar, discutessero di un libro piuttosto che del campionato di calcio o dell’ultimo scandalo». «Elsa era una leonessa, delle critiche degli intellettuali se ne infischiava, anche se certo non le facevano piacere. Il giudizio dei lettori, invece, le interessava moltissimo», dice a La Stampa Dacia Maraini, che nel 1974 è da tempo la compagna di Alberto Moravia, ex marito di Elsa Morante. Elsa e Dacia, un quarto di secolo di differenza, si frequentano e conoscono bene. Dacia, ventottenne, ha da poco fondato il teatro femminista delle Marianne: «Erano anni di entusiasmo e di passione. Aderivo alle manifestazioni, scrivevo, facevo teatro di strada, partecipavo ai gruppi di autocoscienza», dice.
Morante, sessantaduenne, è la «donna poetica» di sempre descritta da Ninetto Davoli e la scrittrice che lavora ai libri con «la stessa eccitazione obliosa e vitale con la quale una ragazza andrebbe a una festa» (è una delle molte cose che di lei ha detto Cesare Garboli, suo caro amico e critico letterario). Solo lei ha il peso, l’intensità intellettuale e d’animo per pubblicare un romanzo che ribalta l’idea, all’epoca dominante, della Storia come progresso inevitabile: per lei, la Storia è sfacelo. Ambientato a Roma, durante la Seconda guerra mondiale, La Storia è il romanzo che Morante indirizza a tutti perché vuole che più persone possibile abbiano coscienza di cos’è la guerra, lo «scandalo che dura da diecimila anni», e di cos’è il potere, e del dominio che viene esercitato sugli ultimi. Ieri sera, su Raiuno, è andata in onda la prima puntata della serie che ne ha tratto Francesca Archibugi: le riprese sono iniziate quasi in concomitanza con l’invasione russa in Ucraina.
Maraini, cosa dice al nostro tempo La Storia?
«Elsa Morante, con una intelligenza folgorante e una capacità affabulatoria da grande scrittrice, ha saputo raccontare la guerra dalla parte degli umili. Useppe, figlio di un giovanissimo soldato tedesco che violenta la giovane Ida, farà da ponte fra l’innocenza di un dolcissimo bambino italiano e un altro bambino (il popolo tedesco) che è stato pervertito da un orribile predone razzista e sanguinario. È un libro che fa capire cosa significhi la guerra per chi la vive dall’interno, ma senza alcun potere di decisione, da vittima sacrificale, ma animato dall’amore per la vita e per le persone care».
Quando uscì le piacque?
«Moltissimo. E mi indignavo per le critiche, soprattutto per quelle più brucianti dell’avanguardia che imperversava in quel periodo».
Cosa pensa delle accuse della critica (romanzo qualunquista, facilone, concentrato di sentimentalismo per le masse) e di quelle di Pasolini?
«Ricordo di averne discusso con Pier Paolo e mi è dispiaciuto che fra i due si sia creato un distacco. Le critiche a La Storia mi fanno pensare a quelle che ha ricevuto un secolo prima Dickens per Oliver Twist. Anche allora si raccontava di un ragazzino alle prese con le crudeltà di una società spietata e priva di attenzione per i giovanissimi. Useppe assomiglia a Oliver. Sono due ragazzini ingenui e generosi, ma muti di fronte alla ferocia degli adulti. Non c’è niente di sentimentale nel raccontare una storia che ricorda i difficili rapporti di tutti i tempi fra adulti e bambini. Oggi fra l’altro Oliver Twist è considerato un capolavoro della letteratura europea».
Davvero il rapporto tra Morante e Pasolini s’incrinò per sempre per via degli attacchi di lui al romanzo?
«Sì, ma non perché Elsa desse grande importanza alle critiche, ma perché il giudizio veniva da un amico carissimo con cui aveva diviso tante esperienze. L’ha preso come un tradimento».
Cosa rimproverava l’élite culturale a La Storia? L’assenza di eroi, il ribaltamento dello storicismo marxista?
«Io ricordo più le critiche dell’avanguardia che dei marxisti. È vero che il marxismo più tradizionale cercava l’ottimismo nell’arte. Ricordo che Alberto mi raccontava di un commento di Stalin di fronte a un quadro che mostrava un eroe con la bandiera in mano. Ma accanto all’eroe c’era una bambina con un mazzo di fiori e Stalin disse: “Che ci fa una bambina di fronte a un eroe? E i fiori poi fanno pensare alla pace e noi siamo in guerra”. Per dire che molti marxisti prendevano le distanze dall’atteggiamento zdanoviano dei comunisti dell’epoca. Ma credo che, alla fine, il fatto che fosse una donna a scrivere suscitasse molte prevenzioni misogine: una donna non poteva che essere sentimentale e sdolcinata. Per questo la stessa Elsa, che non aveva praticato il femminismo pur essendo femminista nello spirito, dichiarava “io sono uno scrittore”. E la capisco perché allora la parola scrittrice era fortemente penalizzata».
Lei sentiva il peso di quella atmosfera culturale?
«Molti avanguardisti li avevo visti nascere e molti erano amici, come Eco, come Giuliani, come Sanguineti, e quindi soffrivo della loro intransigenza. Non ero affatto d’accordo sulla loro teoria della morte del romanzo. E quindi ero divisa fra l’amicizia e il disaccordo. Il solo romanzo che ho scritto vicino alle loro idee è stato A memoria, che è appunto il libro più sperimentale uscito dalla mia penna».
Moravia scrisse a Morante nel 1980, per consigliarle di accettare la proposta di Liliana Cavani: fare de La Storia un film in tre puntate per la tv. Credeva che Morante fosse preoccupata che la gente non la capisse?
«No, credo che Elsa avesse delle prevenzioni contro la televisione, che le sembrava inadatta a trasferire sullo schermo le profondità e le originalità che difendeva nei suoi scritti».
Moravia cosa pensava di Morante?
«Aveva una grande stima della sua scrittura. Qualcosa del carattere di lei, invece, lo inquietava: la decisione per esempio di sposarsi in chiesa quando si dichiarava laica, la sua volontà eccentrica e a volte eccessivamente vulcanica. Ma le è stato sempre vicino e l’ha aiutata in tutti i modi, sia affettivamente che economicamente, anche quando lei si è innamorata di Visconti e passava le giornate con lui, e poi dopo, quando si è innamorata di Bill Morrow e ne parlava come fosse un angelo sceso dal cielo. Elsa era eccessiva in tutte le cose: o amava furiosamente o odiava per sempre. E questo per un uomo equilibrato e anche un poco timido come Alberto a volte diventava un problema».
Qual è il ricordo più tenero che ha di lei?
«Elsa amava i giochi. Ogni Natale preparava a casa sua la pesca. E invitava gli amici. Varie volte sono stata fra gli invitati e mi sorprendevo ogni volta a vedere la sua allegria e la sua gioia infantile nel guardare gli amici che pescavano i pacchetti dalla grande cesta e scartavano i regali ogni volta diversi: poteva capitare un poco di carbone o un paio di guanti oppure una radio, un disco. Lei andava matta per questo gioco da bambini».
Ne La Storia, così come in molti altri suoi lavori, soprattutto Aracoeli, Morante racconta anche la parte dolorosa e oscura della maternità. Lei cosa pensa dell’esaltazione del fare figli, molto propagandata dal governo?
«Credo che la natura prenda le sue misure a prescindere dalla volontà degli esseri umani: siamo troppi e il nostro mondo fa come i cavalli quando sono sovraccarichi, si scrollano di dosso i pesi scalciando e sgroppando. Non è un caso che la sterilità maschile sia in continuo aumento, soprattutto nei Paesi più avanzati e industrializzati che consumano più energia».
Lei ha mai sentito questa pressione sociale e politica?
«Io ho perso un figlio al settimo mese e non ho più potuto averne. Per anni l’ho desiderato fortemente. Poi mi sono rassegnata a considerare figli i miei personaggi».
Lei e Morante parlavate mai di maternità?
«No, Elsa era contraria ai discorsi fra donne. Lei affrontava la vita con la spada in testa e c’era poco spazio per i discorsi femminili. Comunque anche lei aveva avuto dei problemi generativi, ma questo me l’ha detto Alberto, non lei».
Perché era, a detta di tanti, una persona tanto difficile?
«Il suo era un carattere leonino. Non a caso era del segno del leone. Ma non era mai cattiva o meschina o pettegola o sprezzante. I suoi nemici li attaccava direttamente e onestamente. Poteva dare fastidio per la sua irruenza, ma a conoscerla le si voleva bene per la sua generosità e la sua schiettezza».
Lietta Tornabuoni descrisse Morante come «una sessantenne grande madre terribile» che faceva sentire tutti bambini e colpevoli…
«Non sono d’accordo. I bambini li ha sempre esaltati, basta pensare a Il mondo salvato dai ragazzini. In tutti i suoi libri, soprattutto nell’Isola di Arturo, il personaggio principale è un bambino ingenuo e infelice, dall’animo profondo e sincero. Credo che in fondo lei si identificasse più col bambino che con la madre. E in effetti c’era qualcosa di infantile e candido in lei. Ed è quello che a me faceva tenerezza e simpatia, oltre l’ammirazione che ho sempre avuto per la sua grande capacità creativa».
Perché in Italia non si pubblicano più romanzi così?
«Perché l’Italia ha una storia della lingua molto infelice. Il volgare nasce con Dante che già prevedeva un’Italia unita, ma poi con la controriforma si è tornati al latino e le lingue sono diventate regionali, ma sempre parlate e mai scritte. La lingua colta era il latino e il volgare è tornato a chi non frequentava le scuole. Questo ha impedito la nascita di un grande romanzo ottocentesco come in Inghilterra, in Francia. La nostra capacità narrativa si è spostata sulla musica. L’opera ha espresso quella passione romantica che troviamo nel grande romanzo popolare europeo dell’Ottocento».