Corriere della Sera, 8 gennaio 2024
Intervista a Santo Versace
Santo Versace, qual è il suo primo ricordo?
«Quando ho cominciato a lavorare con mio padre: avevo sei anni».
Non è possibile.
«Ero io che lo sfinivo, volevo andare in negozio con lui a tutti i costi e quando ho compiuto 6 anni come regalo mi disse: adesso sei grande, puoi venire».
Cosa faceva?
«Tanto per cominciare imparai le tabelline del 36, perché il carbone costava 36 lire al chilo: 36-72-108-144-180-216-252-288-324. Poi impalavo e spalavo, copiavo i grandi. Così sono cresciuto di sana e robusta costituzione!».
Un’altra immagine della sua infanzia?
«La morte di mia sorella Tinuccia, avevo quasi 9 anni. Io e Gianni eravamo stati mandati dai parenti. Il feretro fu trasportato dai cavalli, a quei tempi non si usavano le auto: noi camminavamo a piedi dietro la bara bianca. Era il 1953».
Due anni dopo è nata Donatella.
«Un dono che ha riempito un vuoto. Quando aveva 5 anni io giocavo a pallacanestro in serie B, quando mi sono iscritto all’università lei aveva 8 anni, quando mi sono laureato in Economia e commercio lei era in terza media: fu l’unica presente della mia famiglia, quel giorno, me l’ero portata dietro a Messina».
E Gianni dov’era?
«Lui aveva convinto nostra madre ad aprire la boutique a Reggio Calabria. Faceva di tutto: il buyer, il commesso, il capo operativo. Era il miglior venditore».
Quest’anno, a dicembre, lei compirà 80 anni.
«No, ne compio 20 per la quarta volta».
Certo. Ha fatto tante cose: di quale è più orgoglioso?
«I primi 32 anni sono stato a Reggio, dove avevo aperto uno studio da commercialista. Era una vita fantastica, ancora con la famiglia. Però l’esperienza più significativa è stata senz’altro creare un’azienda dal nulla a livello mondiale e poi difenderla, dopo la morte di Gianni».
L’idea della casa di moda fu sua.
«Dissi a Gianni che avremmo fatto meglio di Yves Saint-Laurent. Carlo Tivioli, il suo compagno di allora, replicò che ero un pazzo».
Invece aprì 120 boutique in tutto il mondo.
«Il primo giro del mondo lo feci per l’apertura a Sydney, nel 1982. Il 4 gennaio da Milano andai a Fiumicino, poi ad Atene, Calcutta, Bangkok, e il 6 arrivai in Australia. Dopo volai a Melbourne, di nuovo a Sydney e da lì tornai indietro: una notte a Los Angeles, una a San Francisco, una a New York, una sull’Oceano Atlantico, una giornata a Parigi e il 16 ero a Milano».
Le capitavano spesso questi tour de force?
«A quei tempi sì. Un altro giro incredibile fu quando ci svegliammo a New York con Anne Marie Paltsou, che era direttore commerciale: dopo colazione andammo a La Guardia per prendere l’aereo per Toronto, lì scegliemmo lo spazio per la boutique nuova, pranzammo, andammo a Montréal per un’altra boutique, cenammo e prendemmo l’aereo per tornare a dormire a Vancouver. Tutto nello stesso giorno. Da Vancouver, dopo, San Francisco, Honolulu, Los Angeles, e infine Milano».
Le top model come le vedeva?
«Costosissime! Io ero sempre lì a litigare sui costi, sui prezzi, su tutto. Ma era fantastico! Era un momento particolare, la follia che attraversava la famosa Milano da bere, della creatività, del design. Stava cambiando l’immagine dell’Italia nel mondo, Der Spiegel ci raffigurava in copertina con gli spaghetti e la P38».
C’erano Naomi Campbell, Linda Evangelista, Cindy Crawford e Christy Turlington.
«Costavano 15 mila dollari a sfilata. Ma quando le chiamavi apposta per un evento dovevi pensare a tutto: aereo in first class, hotel di lusso per cinque notti... Alla fine il cachet lievitava».
Con gli altri stilisti vi facevate la guerra?
«Era bello avere dei competitor così forti, perché ti spronavano a dare il massimo. Ma ognuno poi pensava a sé, non stava a guardare gli altri».
Che ricordi ha con loro?
«Quello indelebile con Valentino e Giammetti è del giorno in cui è stato ucciso Gianni. Io, Donatella ed Emanuela Schmeidler siamo corsi a Ciampino per prendere l’aereo privato e li abbiamo trovati lì all’aeroporto per abbracciarci».
E di Giorgio Armani cosa dice?
«Semmai cosa ha detto lui di me!».
Che a Gianni invidiava suo fratello Santo.
«Lo scorso anno l’ho incontrato due volte: a Milano, alla presentazione del film The Inside Story of Italian Fashion, e a Venezia, alla sua sfilata. In entrambe le occasioni ero con mia moglie Francesca. Negli anni 90 dai calendari delle sfilate ti rendevi conto che Milano era forte per i suoi due alfieri: Gianni apriva e Armani chiudeva. Uno rinforzava l’altro, ognuno voleva essere il più bello e il più bravo, ma ognuno lavorava per sé. In mezzo c’era una ricchezza bellissima: Ferré, Krizia, Missoni, Fendi. Un grande fervore».
Dov’è adesso il famoso manichino di Lady D?
«Questo bisogna chiederlo alla Versace. Sarà negli archivi...».
Della Principessa Triste ha un’immagine privata?
«Lei che mi tiene la mano per mezz’ora in via del Gesù per consolarmi, il giorno della cerimonia funebre in Duomo. Mentre con Elton John, a parte le foto fatte a New York nella sua casa, è incancellabile il ricordo del funerale mentre piangeva, prima di cantare con Sting. In seguito fece un concerto straordinario a Riga, dove andai anch’io, e il giorno dopo un quotidiano titolò a 8 colonne con le sue parole: “Santo io ti amo”».
Quel 15 luglio 1997 aveva cambiato tutto.
«Non riuscivo a credere che fosse morto. È toccato a me il riconoscimento all’ospedale, non ci volevano far entrare. Poi, quando ho toccato la testa di Gianni, ho ritratto la mano piena di sangue: lì ho capito che non c’era più. Ho spinto io la bara dentro il forno crematorio: mi restituirono un sacchetto di cenere così piccolo».
Le ceneri sono a Milano nella sede di via Gesù. Pensa spesso a suo fratello?
«Sì, a lui come a mio padre e a mia madre. Con tutte le preghiere che abbiamo fatto e che facciamo dire, con le candele che accendiamo, spero che adesso sia in paradiso».
È sempre stato un uomo di fede?
«Da ragazzo ero boyscout. Da adulto mi sono allontanato. Soprattutto dopo quello che è successo a Gianni mi sono un po’ perso. Ma grazie a Francesca ho ritrovato la fede: andiamo a messa tutte le domeniche e nei giorni festivi. Si lavora per il paradiso, lo si cerca per tutti i parenti».
Anche per Donatella?
«Lei è la prima: è mia sorella».
Quando l’ha vista l’ultima volta?
«Mi appello al Quinto Emendamento».
Possiamo considerare il suo rammarico più grande non aver compiuto la fusione con Gucci?
«È la cosa che mi ha addolorato di più, dopo la morte di Gianni. Eravamo pronti. Sarebbe nato un gruppo fantastico, avremmo avuto il tempo e la forza di farlo crescere: con lui ci sarebbero stati Tom Ford e Domenico De Sole. Era un punto di partenza, non di arrivo».
Lei è sempre stato molto legato al Made in Italy. Altagamma, il comitato dei marchi di lusso italiani, è una sua creatura.
«Eravamo partiti in nove, io sono presidente fondatore, con Angelo Zegna il papà di Gildo, Franco Mattioli per Ferré con Gianfranco, Marco Bandiera di Les Copains, FontanaArte e Alessi per il design, Marina Deserti, Ferragamo e Gucci: sei per la moda, due per il design e uno delle insegne alimentari. Già da allora eravamo trasversali. Sono super orgoglioso di quello che abbiamo fatto, sta funzionando benissimo».
Porta il suo nome la legge sull’etichettatura del Made in Italy, licenziata durante la sua esperienza parlamentare dal 2008 al 2013.
«La legge l’abbiamo voluta per dimostrare all’Europa che l’Italia era compatta nella difesa dei valori della manualità, anche se non poteva essere applicata, perché quelle questioni sono di competenza europea. Era un segnale».
Avrebbe voluto fare di più, da deputato?
«Forse mi ha penalizzato l’inesperienza, il pensare in maniera aziendale. Ma stavo viaggiando verso il divorzio, e poi lavoravo da battitore libero, ero ingombrante, avevo troppi problemi. Oggi sarei maturo».
Le piacerebbe tornare in Parlamento?
«Ma no. Però mi piace continuare a parlare di politica da cittadino libero».
Ora si dedica alla Fondazione Santo Versace.
«Me ne occupo con mia moglie. La cosa più bella l’abbiamo fatta a Fabriano, il giorno dell’Immacolata, alla messa per i 25 anni dell’ordinazione sacerdotale del nostro padre spirituale, don Aldo Bonaiuto».
Cos’avete fatto?
«Abbiamo battezzato due bambine. Lei Sarah, con il ministro degli Esteri Antonio Tajani: è una nigeriana di 5 anni la cui madre era stata vittima della tratta. Io Lyanna, con la moglie di Tajani, Brunella Orecchio: ha 9 mesi ed è nata su un barcone della speranza».
Francesca De Stefano le ha ridato il sorriso.
«Abbiamo aspettato luglio scorso per sposarci in chiesa: se avessi saputo che sarebbe stato così emozionante lo avrei fatto prima!».
Nuovi progetti?
«Stiamo sostenendo la Casa dello Spirito e delle Arti per il concerto alla Scala di Milano del 12 febbraio con l’Orchestra del mare: i musicisti suonano con gli strumenti ad arco realizzati dai carcerati con il legno delle barche dei migranti. Il ricavato sostiene il progetto Metamorfosi: crediamo molto nel reinserimento dei detenuti».
Che padre è stato?
«Forse potevo essere più severo, ho lasciato ai miei figli molta libertà. Noi, invece, ci siamo dovuti conquistare tutto».
Le dispiace che non lavorino in Versace?
«Sì, soprattutto per Francesca, che aveva interesse e potenziale. Come ho spiegato nel libro Fratelli, se Gianni fosse stato ancora vivo avrebbe di sicuro lavorato al suo fianco».