Corriere della Sera, 8 gennaio 2024
Emilia Costantini racconta Fellini
il regista. Per lui il cinema era un gioco, come quando da bambino creava burattini«Io mito del cinema? Lei si rende conto dell’imbarazzo in cui mi precipita essere obbligato a darle una risposta e a parlare di me come un mito?», esordì Federico Fellini, con tono seccato, quando quasi quarant’anni fa ebbi la possibilità di fargli un’intervista. Era la metà degli anni Ottanta, Fellini stava per iniziare le riprese di Ginger e Fred e io conducevo su Radio Due il programma Festival, dove affiancavo un noto produttore cinematografico, Turi Vasile. Oltre alla conduzione in studio, a via Asiago, venivo inviata a svolgere servizi in giro per l’Italia. Quella volta mi fu affidato il compito di intervistare il grande regista. E non solo lui, anche Giulietta Masina, l’importante critico cinematografico nonché suo amico Gian Luigi Rondi e lo storico amico Titta Benzi. Dovevo realizzare un ritratto a più voci.
Il grande regista, di cui l’anno scorso si è celebrato il trentennale della morte, mi accolse nel suo ufficio, nel mitico Teatro 5 a Cinecittà. Lui seduto alla sua scrivania. Io in piedi con il registratore e il microfono in mano, pronta a fargli le domande e a cogliere, con la necessaria devozione, le sue preziose risposte. La prima impressione che ebbi fu la sua scarsa disponibilità: non ne aveva proprio voglia, ero una giovane giornalista a lui completamente sconosciuta. Aveva accettato la proposta solo perché la proposta era arrivata dal produttore Vasile, che Fellini conosceva, e perché si trattava di un programma della Rai, e non per una emittente qualunque.
«Ho sentito dire di me qualunque cosa – continuò la sua reprimenda sulla definizione del «mito» —. Che ero svogliato, un fannullone indeciso, un bugiardo, un pessimo studente, un confusionario sfaticato... Questa faccenda del mito mi trova impreparato totalmente. Ho accettato tutte le altre definizioni, ma questa del mito mi sembra la più insultante, faccio fatica ad accettarla e non perdo tempo a cercare di definirmi, non ne comprendo il vantaggio. Questi rendiconti si risolvono sempre sotto l’aspetto fallimentare, sono inutili, evito di guardami allo specchio metaforico. Sono troppo occupato col mio lavoro. Mi riconosco solo in uno che ama il proprio lavoro e che non posso nemmeno chiamare lavoro».
Sì perché, per il regista della Dolce vita, all’idea di «lavoro» si associava qualcosa di obbligatorio, di pesante e costrittivo. Mentre invece il suo impegno professionale, pur avendo qualche volta aspetti drammatici, nevrotici, pesanti, lo definiva molto lieto, festoso. Gli sembrava di divertirsi come quando da bambino creava i burattini. «Ecco – ammise soddisfatto – mi pare di aver avuto la grande fortuna di poter continuare a giocare, come quando lo facevo sotto la scrivania di mio padre, mentre lui, sopra, scriveva i conti in quei grandi libri mastri e io lì sotto con le forbici, la colla, i colori, l’ago e il filo preparavo una nuova marionetta». Insomma, continuava a fare il suo lavoro di cineasta ancora sotto la scrivania di qualcuno.
Era assolutamente d’accordo con quest’analisi la moglie, Giulietta, che mi accolse nella loro casa romana in via Margutta: eravamo noi due da sole, in salotto, sedute di fronte alla finestra. «Raccontare il mito di Fellini? – esordì l’attrice con il suo consueto tono discreto —. Per me Federico non è un mito. L’ho conosciuto più di quarant’anni fa, me ne sono innamorata e ci siamo sposati. Come donna, lui non si è ancora stancato di questa impicciona che è Giulietta. Come attrice gli devo il mio successo e aver potuto fare cinema».
Poi entrò nei dettagli del carattere del marito: un piglio difficile da accettare per la sua impazienza nel dover ascoltare il prossimo, nel fare le cose che, secondo lui, andavano fatte con la bacchetta magica. Talmente impaziente da sembrare in certi casi persino comico. Un difetto, comunque, non insopportabile, al contrario sopportabilissimo. E Giulietta non era disturbata dalla definizione di «genio», semmai la divertiva quando coglieva in lui i difetti che hanno i comuni mortali, che non sono geni.
La maggiore qualità del suo Federico, però, era l’umiltà nei riguardi degli altri e l’assoluta mancanza di presunzione. Fellini era un lavoratore indefesso, arrivava prestissimo sul set e cominciava subito a girare... Con lui era come girare tre film insieme: non rappresentava mai la realtà così com’era, ma attraverso la sua verità riproposta e ricostruita, attraverso la sua fantasia. La realtà non lo soddisfaceva mai, non riusciva a esprimere quello che egli sentiva in quel momento e così si inventava una realtà mediata dalla sua verità... «Ecco chi è per me il “genio Fellini”», concluse l’attrice.
Alla definizione di «genio», Rondi aggiunse categorico: «Fellini è sì un genio, ma non uno sregolato. Ama dire le bugie, che sono poi la fonte della sua fantasia».
Ebbene sì, Fellini amava dire bugie, un vizio riconosciuto a livello nazionale e che, pare, tutti gli rinfacciavano. Ma era talmente bravo a dirle, creando addirittura una sceneggiatura della bugia, che era inevitabile perdonargli le sue frottole.
La sua più bella bugia, ricordava il critico, fu quando gli raccontò una scena del film che doveva ancora girare. Rondi lo aveva pressato per ottenere indiscrezioni sul suo prossimo lavoro cinematografico e, quella volta, il regista ha osato inventarsi una scena di sana pianta. Infatti, quando poi il film uscì in sala, quella scena non c’era: era stata tagliata? Fellini rispose all’amico: «No, me la sono inventata nel momento in cui te l’ho raccontata».
Un regista libero da schemi, senza remore: ha sempre fatto quello che voleva fare, correndo anche dei rischi. Se per esempio l’appuntamento con una determinata persona corrispondeva a un suo interesse specifico, lui era presente e puntuale, altrimenti si dimenticava di tutto e di tutti: in ciò consisteva la sua prepotente «romagnolità».
Altri difetti? Secondo Rondi, l’egoismo: concedeva agli altri quello che gli conveniva in un determinato momento, non in senso economico, perché era totalmente disinteressato, i soldi non lo interessavano minimamente. Tuttavia, il suo disinteresse lo portava a trascurare, a volte, anche i sentimenti delle persone più vicine.
Anche se l’avvocato Benzi, il più caro amico sin dai banchi della scuola elementare e al quale il regista dedicò il personaggio di Titta Biondi nel film Amarcord, ricordava un episodio toccante: nel 1951 era stato coinvolto in un terribile incidente stradale, in cui aveva perso la vita sua moglie, mentre lui era finito moribondo in ospedale. «Federico – mi raccontò Benzi – appena seppe la notizia, abbandonò il set su cui era impegnato, e si precipitò al mio capezzale. Mi guardava e piangeva».
Un sentimento fraterno, che coinvolgeva il regista anche sul piano personale. La cosa che, infatti, egli chiedeva alla vita era di avere una buona salute: temeva fortemente il non sentirsi più in possesso delle proprie forze, della propria energia e disponibilità. L’infermità gli avrebbe tolto la gioiosa dimensione di poter svolgere il suo lavoro quotidiano. «Voglio continuare a star bene – mi disse – per continuare a giocare con i miei film».
Fellini è stato un interprete del mondo e della società con grande sincerità: ha raccontato la verità sulle nostre e le sue angosce, incoraggiando il suo pubblico a sopportarle. Ma nonostante i successi, non era soddisfatto di sé stesso. «La soddisfazione è un problema che non mi pongo: uno soddisfatto di sé stesso è imbalsamato. Bisogna essere continuamente insoddisfatti e continuare a fare... fare... fare...».
Provai infine a fargli un’ultima domanda, ma lui mi guardò torvo: «Ancora non è finita ‘st’intervista?». E me ne andai con la coda tra le gambe.