Robinson, 7 gennaio 2024
Su Happy Days
Poco prima c’era stato “American Graffiti”, poco dopo sarebbero arrivati John Travolta e “Grease”. Ecco perché da quella che oggi chiameremmo serie tv ricevemmo un’educazione sentimentalediFrancesco PiccoloTutti sanno che Ron Howard, il grande regista di Cocoon, A Beautiful Mind e molti altri film premiati e di successo, è stato Richie Cunningham, il protagonista designato di Happy Days. Ma non tutti sanno che se oggi Howard è un uomo pelato, con pochi capelli solo sulle tempie, mentre Richie era pieno di capelli rossi, è a causa di Fonzie. O di quella che viene da allora chiamata “sindrome di Fonzie”, e cioè la scalata verso il successo da parte di un personaggio minore, quando il pubblico decide non solo che è irrinunciabile, ma lo vuole al centro della scena. E a mano a mano che stagione dopo stagione lo spazio di Fonzie cresceva, l’attore che interpretava Richie soffriva: «Iniziai ad avere eruzioni cutanee su tutto il corpo, in modo più acuto sulle palpebre. E i miei capelli iniziarono a diradarsi». Poi, decise di intraprendere la strada che sognava, quella del regista, e così nelle ultime stagioni si fece da parte più volentieri.Cinquant’anni fa nasceva questa serie che si svolgeva nella provincia americana ( che poi era una città, Milwaukee), che raccontava la casa di una famiglia, e tutti gli amici dei figli che la frequentavano. Una materia narrativa molto semplice, ma che per la televisione era rivoluzionaria – per gli americani, e figuriamoci per gli altri Paesi che invase. In Italia, per dire, erano gli anni del Padre Brown di Renato Rascel, e della lunga serie I ragazzi di Padre Tobia con Silvano Tranquilli. Erano sceneggiati per ragazzi, e poi c’erano quelli per gli adulti. In mezzo, nella sostanza, non c’era niente. Per questo, quando arrivò Happy Days restammo tutti incollati alla tv: si parlava di giovani, e si andava in un posto, “Arnold’s”, che nella sostanza era un fast food, ma nessuno riusciva a decifrarlo, o a nominarlo, perché qui da noi non esistevano. E quando sono arrivati, entrandoci abbiamo capito che stavamo finalmente entrando, con decenni di ritardo, in Happy Days. Non che questi ragazzi fossero quelli della 56a strada di Coppola, o quelli dello zoo di Berlino; erano bravissimi giovani che vivevano in famiglie della piccola borghesia americana, dove vigevano onestà e sobrietà. Erano ragazzi che si rispettavano tra loro, che obbedivano ai genitori, che rispettavano le regole dei fidanzamenti; ma proprio per questo, quindi, gli episodi ruotavano intorno alla messa in bilico dei valori, in modo soft: bevute di birra a una festa, corse di macchine illegali, qualcuno che racconta di aver visto lo spettacolo di una spogliarellista, e problemi come: Richie ha comprato i biglietti per un concerto ma deve andare ad aiutare il padre nel negozio di ferramenta. Oppure Richie e i suoi amici fondano un complesso per guadagnare dei soldi, ma poi vanno a giocarseli a poker. Trasgressioni sopportabili che facevano un po’ tremare la piccola borghesia che si guadagnava da vivere col sudore, e che poi rientravano con soluzioni rassicuranti per genitori e figli. Ma tanto bastava, a noi e agli americani, per sentirsi eccitati e per affidarsi a un racconto che appariva rivoluzionario anche solo per il fatto di occuparsi di studenti, in cui ci si poteva immediatamente rispecchiare.Erano gli anni in cui si stava imponendo il racconto generazionale: appena dopo arrivano Lafebbre del sabato sera e Grease, e appena prima c’era stato il grande successo diAmerican Graffiti: è lì che si vede Ron Howard, è lì che i produttori decidono che un episodio pilota girato qualche anno prima e buttato via, con lo stesso attore, forse si può provare a svilupparlo: American Graffiti ha detto che c’è un pubblico al cinema, perché non provare a vedere se c’è in televisione?Beh, c’era, e aspettava. E aspettava il racconto della giovinezza da un bel po’, perché non si accontenta delle vicissitudini della famiglia Cunningham, con Richie e Sottiletta, come tutti chiamavano la sorella Joanie, perché era magra – in realtà i figli dei Cunningham all’inizio erano tre, c’era anche Chuck per un paio di stagioni, ma poi gli sceneggiatori capirono che era in più e, niente, lo eliminarono da un episodio all’altro, senza nessuna soluzione narrativa. Fino alla puntata precedente i Cunningham dicevano di avere tre figli, e poi dicevano che ne avevano due. Risolto così. E in realtà avevano ragione loro: perché di Chuck nessuno poi ha mai sentito la mancanza.Ma, appunto, al pubblico non bastava la famiglia, e il gruppo di amici. Volevano di più. E individuò lì dentro un meccanico, un po’ più grande degli altri, una specie di filosofo di vita con molti aspetti negativi, decisamente affascinanti. Il primo vero personaggio negativo televisivo, quello che non riusciva in alcun modo a pronunciare la parola “scusa”. E che con i suoi silenzi, e le sue facce appena espressive, conquistava non soltanto ilpubblico a casa, ma tutti gli altri personaggi del telefilm, perfino la signora Cunningham in chissà quali pensieri proibiti. Era in fondo un buono, ci raccontavano, ma in verità era un problema che aveva a che fare con l’assoluto: il ragazzo più grande e più fico, che non potrai mai combattere, e alla fine l’unica arma che hai è accoglierlo ( perfino in casa, da una certa stagione in poi) sperando che grazie all’amicizia non ti sottragga più ragazze, amici, soldi e fama. Un personaggio a cui vuoi bene, e a cui non dovresti voler bene: una miscela irresistibile. È come se poi, nella nostra vita di spettatori da lì in poi, avessimo amato sempre figli di Fonzie, diventati anche terribili.Happy Days non raccontava il proprio tempo, ma come American Graffiti eGrease, e persino come farà poi Ritorno al futuro, che metterà in scena il viaggio nel tempo per tornare agli anni ’ 50, racconta un’America retrodatata, a cavallo dei ’ 50 e ’ 60. Per dare credibilità a quella brava gente, e per far sentire sia un coinvolgimento sia una giusta distanza. Non eravamo noi, ma ragazzi che avevano vissuto anni prima, e da loro cominciava tutto, cominciava il mito della giovinezza, lo fondavano riandando al tempo in cui c’era il giovane per eccellenza: James Dean.Era una situation comedy ( gli episodi si registravano davanti a un pubblico), che noi chiamavamo telefilm, e che oggi abbiamo trasformato in serie tv. Un antenato delle serie teen che vediamo oggi, un padre fondatore – qualcosa che non capivamo perché fosse importante, ma ci sembrava importante; come poi è stato. Con tutti i contrappesi che ci volevano per renderla accettabile. Ma è da quei contrappesi che si è partiti per arrivare alla libertà invidiabile della narrazione televisiva di oggi.© RIPRODUZIONERISERVATA ERA RIVOLUZIONARIA PER GLI AMERICANI, FIGURIAMOCI PER GLI ALTRI PAESI. IN ITALIA, PER DIRE, ERANO I TEMPI DEL PADRE BROWN DI RENATO RASCEL, E DE “I RAGAZZI DI PADRE TOBIA” CON SILVANO TRANQUILLI NON ERAVAMO NOI, MA RAGAZZI CHE AVEVANO VISSUTO PRIMA DI NOI E DA LORO COMINCIAVA TUTTO, COMINCIAVA IL MITO DELLA GIOVINEZZA, LO FONDAVANO RIANDANDO AL GIOVANE PER ECCELLENZA: JAMES DEANABC PHOTO ARCHIVES/ DISNEY GENERAL ENTERTAINMENT CONTENT VIA GETTY IMAGESPHOTO 12 / ALAMY STOCK PHOTOMOVIESTORE COLLECTION LTD / ALAMY STOCK PHOTOJI protagonistiIn queste immagini, alcuni fotogrammi diHappy Days.La sit com racconta le vicende della famiglia Cunningham e degli amici del figlio Richie; tra gli interpreti, Ron Howard e Henry Winkler