Tuttolibri, 6 gennaio 2024
Bobbio e le bombe
La bomba atomica fu l’arma decisiva per determinare la sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale. Ma non fu solo quello. Anche dopo la guerra la «bomba» incise sui comportamenti di milioni di esseri umani, influenzandone l’immaginario e alimentandone le paure. Un grande psicanalista, Franco Fornari, in un suo libro, Psicanalisi della guerra atomica (1964), si interrogò su come la «prospettiva pantoclastica» (la possibilità, cioè, che l’uomo con le sue stesse armi fosse in grado di distruggere per intero il proprio habitat naturale), incidesse allora sui sogni, le angosce, gli incubi di una umanità che si percepiva sull’orlo del baratro. A dare concretezza a questi timori c’erano le cifre della corsa agli armamenti nucleari. Dal 1945 al 1996 furono costruite 130 mila testate nucleari, pari a una potenza esplosiva di 25-30 mila megatons. Ricordiamo che l’intera potenza esplosiva usata in tutte le guerre della storia, dal neolitico a Nagasaki, sfiorava appena i 10 megatons. In particolare, nel 1961 l’Urss fece esplodere la «bomba Zar», il più potente ordigno nucleare mai sperimentato, con una capacità distruttiva pari a 1.570 bombe di Hiroshima e Nagasaki.Allora, soprattutto dopo la crisi dei missili a Cuba (1962), l’incubo della guerra atomica gravava sugli uomini e le donne che abitavano il nostro pianeta alimentando profonde paure e comportamenti bizzarri come il proliferare di rifugi antiatomici nelle ville dei più ricchi.Proprio nello stesso anno dell’uscita del libro di Fornari, Norberto Bobbio tenne un corso all’università sul tema della pace e della guerra esplicitamente ispirato alle angosce di quel momento, facendosi «maestro» di una generazione assetata di sapere e in cerca di rassicurazione per le sue inquietudini. Si trattò, da parte sua, di usare un metodo che sarebbe poi diventato un classico: si partiva dalle «ferite» del presente prendendo un tema scottante; lo si portava sul tavolo anatomico della storia, della filosofia, del diritto; lo si vivisezionava, studiandolo; e, alla fine, agli occhi dei suoi allievi, quello che fino ad allora era sembrato soltanto un tumulto di emozioni, assumeva l’aspetto rassicurante di un «oggetto di studio» che si poteva controllare attraverso la conoscenza.Il corso nasceva da una prima riflessione sulla «guerra giusta», una teoria ricondotta essenzialmente alla cultura giusnaturalistica medievale e protomoderna, approfondendone non solo il contesto storico in cui si era affermata (il tempo delle guerre di religione) ma anche il suo limite intrinseco per il quale, nonostante fosse nata per mettere un argine alla guerra, come un «adattamento alla realtà» degli Stati cristiani congedatisi definitivamente dal pacifismo paleocristiano, aveva finito per giustificare tutte le guerre. E la storicità era il cardine concettuale del corso bobbiano, evidente anche in una periodizzazione (dalla riforma alle guerre napoleoniche, a quelle nazionali fino alle due guerre mondiali novecentesche e alle gandhiane teorie della non violenza) alla quale gli studenti potevano attingere per collocarla nella concretezza delle azioni umane: la guerra non era un fenomeno che apparteneva a Dio o alla natura ma era una scelta degli uomini e in quanto tale se ne potevano conoscere razionalmente i motivi e le premesse. In questo senso, la prospettiva di un olocausto nucleare polverizzava ogni credibilità della guerra, giusta o ingiusta che fosse, rendendo comunque inaccettabile il rischio di cancellare ogni forma di vita sul pianeta.Bobbio era un uomo del Novecento, un secolo che intorno alla «statualità» aveva rinnovato il modo di concepire lo spazio pubblico; ragionava quindi nei termini di un totale affidamento alle risorse della politica, alla sua capacità di plasmare i destini, di «spianare le montagne». E la politica, in quel secolo, voleva dire essenzialmente lo Stato. Di qui il suo richiamo a Hobbes: l’uomo aveva smesso di essere «lupo» quando aveva cominciato a obbedire alle leggi morali, quelle che frenano gli istinti e sovrappongono la sovranità dello Stato all’arbitrio del singolo. Ma non era lo Stato nazionale quello a cui Bobbio pensava. L’altro cardine del corso, infatti, oltre a quello della storicità della guerra, era che la pace, come la guerra, non appartiene a Dio o alla natura ma è un progetto da costruire, la cui costruzione spetta a noi servendoci di strumenti che cambiano a seconda delle fasi del processo storico. Nel suo tempo, quello della guerra fredda, Bobbio vide questo strumento in un ordine, un ordinamento in grado di porre le «premesse della pace» attraverso «un terreno di incontro e di dialogo». Al «pacifismo strumentale» degli aleatori accordi sul disarmo e alle vane illusioni del «pacifismo morale» sul miglioramento della natura umana, Bobbio contrapponeva dunque il «pacifismo giuridico» di un’autorità super partes in grado di limitare e controllare l’uso della forza nei rapporti tra Stati attraverso la costruzione di appositi meccanismi istituzionali garantiti dal costante allargamento di una «comunità internazionale in grado di dare il giusto spazio ai diritti e ai bisogni degli individui e degli Stati, creando un circolo virtuoso tra democrazia interna e esterna». Guardiamo a questa affermazione con lo spirito di allora: la pace «come progetto» restituiva alla speranza le inquietudini di quei giovani, sottraendole al fatalismo e alla rassegnazione.Le dispense di quel corso furono raccolte da due allieve di Bobbio, Nadia Betti e Marina Vaciago; oggi vengono pubblicate in un libro a cura di Tommaso Greco e con la postfazione di Pietro Polito. Tra gli studenti che seguirono quelle lezioni c’ero anch’io e all’esame, come testo integrativo, portai il libro di Franco Fornari.