Corriere della Sera, 6 gennaio 2024
Giuseppe Pedersoli ricorda Bud Spencer
«Se era papà ad accompagnarmi a scuola, finiva che in classe non ci arrivavo mai. “Tanto che ci vai a fare?”. E mi portava in gita all’aeroporto dell’Urbe o alla scuola di aviazione di Foligno, al porto di Fiumicino o alla concessionaria Mercedes. La persona meno severa al mondo. A sette anni gli dissi che volevo praticare nuoto. Andammo da Novella Calligaris. “Però il bambino deve allenarsi due ore al mattino, prima delle lezioni, e due ore al pomeriggio”. “Va bene”, le rispose. “Non se ne parla nemmeno, Peppotto, sarebbe un’ammazzata”, mi disse invece appena rimasti soli. Non ne riparlammo più. Però per lui i valori dello sport erano fondamentali: si commuoveva ricordando di quando, dopo il record sui 100 stile libero, i compagni gli regalarono un accappatoio nuovo», racconta Giuseppe Pedersoli, 62 anni, sceneggiatore e produttore per cinema e tv, uno dei tre figli di Bud Spencer, che se gli metti la barba sembra proprio Piedone, sebbene meno imponente. «Temeva che ci soffrissi, nel confronto. “Non sei tanto più piccolo di me, sai Peppottone?».
Bud Spencer con la moglie Maria Amato (a sinistra) e i loro tre figli: Cristiana, Diamante e Giuseppe
Lui invece era un gigante.
«Un metro e 92 per 120 chili, poi saliti a 165. Da giovane era bellissimo, poi si è lasciato andare, ma aveva analisi perfette. Non dava affatto l’idea di un ciccione, piuttosto di un uomo molto forte. Aveva gambe magre, camminava e danzava con leggerezza, ballò con Raffaella Carrà. Era atletico, nonostante la stazza».
Da bimbo le metteva paura, così grande e grosso, con la barba scura e il vocione?
«Né a noi figli né ai piccoli attori con cui lavorava. Il suo sorriso e le sue manone trasmettevano protezione. Una sola volta, per una rispostaccia, mi diede uno schiaffetto su una gamba. Mai visto arrabbiato più di un minuto».
A casa c’era poco.
«Dal ’67 in poi ha girato tre o quattro film all’anno, per dieci, undici mesi era via. Non lo vedevamo quasi mai. Quando tornava ci riempiva di regali. Trenini elettrici e aeroplanini, che piacevano a lui. Sul set andavamo di rado, nemmeno a Campo Imperatore, in Abruzzo, dove giravano i Trinità. Il successo suo e di Terence fu immediato ed esplosivo, non erano preparati. I rapimenti allora erano all’ordine del giorno, aveva paura per noi. A 15 mi portò a Hong Kong, ricordo l’aereo che atterrava in picchiata tra i grattacieli. Per i 18 anni di mia sorella Cristiana organizzò una festa nel deserto, accanto alle Piramidi, era così. Del lavoro di attore parlava poco, con distacco, come se ogni film potesse essere l’ultimo, è arrivato a 100. Si entusiasmava molto di più per le imprese sportive, per l’avventura alle Olimpiadi, forse il momento più felice della sua vita».
Non era troppo convinto di fare cinema.
«Non lo so, forse si sentiva inadeguato. Voleva capire chi era davvero, dopo la gloria sportiva. Nel ’57 partì per il Sudamerica, dove restò per tre anni, tra Venezuela e Panama. Da ragazzino aveva vissuto in Brasile con i suoi, lavorando come giovanissimo bibliotecario al consolato. “Il napoletano è un brasiliano triste”, diceva. La famiglia attraversò un momento di difficoltà, camparono vendendo le lenzuola del corredo».
Da giovanotto fece anche il musicista.
«Con amici mise su un complesso, “Gli assatanati del ritmo”, animavano le notti a via Veneto. Lui cantava e componeva. Si presentò un ragazzotto di Polignano a Mare. “Mi prendete con voi?”. Fece sentire le prime canzoni, tremende.”Lascia perdere”. Qualche anno dopo vinse Sanremo. Era Domenico Modugno».
Cinecittà lo notò comunque.
«Si era fidanzato con Maria Amato, la figlia di Giuseppe, produttore della Dolce Vita. Come minimo per casa girava Anthony Quinn. Mamma lo andava a prendere con l’auto del nonno, sul sedile posteriore magari c’era Gregory Peck».
Terence Hill e Bud Spencer, «Trinità» e «Bambino».
«Papà lo chiamava Mario – l’unico a poterlo fare – lui Carlo. Fuori dal set erano due grandi timidi che non sapevano bene come prendersi. Terence è buono e gentile, però molto introverso. E poi, quando non lavorava, viveva negli Stati Uniti. Saranno usciti a cena insieme tre volte in vita loro. Ogni tanto veniva da noi per la spaghettata di mamma. In scena invece si trasformavano, tra loro c’era emozione vera, si creava un’armonia perfetta».
Con tante scazzottate cinematografiche, tornava mai con un occhio nero?
«No, anche se le scene di azione lo divertivano moltissimo. Terence invece qualche punto se l’è messo. Come quando il cattivo del film doveva colpire mio padre con una tavola di legno, lui però si scansò e la botta in testa se la prese Trinità».
Inseguimenti a tutto gas.
«Papà era eccezionalmente miope, portava occhiali spessissimi. Per girare doveva toglierli, non vedeva quasi niente, eppure quelle scene voleva girarle senza controfigura, non so come facesse. In Piedone lo sbirro c’è lui che su una Fiat 130 coupé insegue una Lamborghini per le vie di Napoli. Tenga conto che, qualche anno fa, in aeroporto, invece del pulsante dell’ascensore ha premuto quello di un distributore di bibite»
Prese il brevetto di pilota.
«Durante le riprese di Più forte ragazzi! in Colombia, mentre Terence, un marine, dormiva in una stamberga vicina al set, papà andava avanti e indietro con un piccolo aereo a venti minuti da lì. Dopo un mese aveva imparato come si pilotava. “Ora comando io”. E partì. Erano tutti terrorizzati, specialmente quando, in atterraggio, eseguì una manovra “a quaglia”, saltellando sulla pista. Il volo per lui era una passione travolgente. Dormiva perennemente con la radio accesa e collegata con il traffico aereo del posto».
Aveva un sacco di idee.
«Imprese ardite che spesso si rivelavano catastrofi economiche. Mentre girava Uno sceriffo extraterrestre… poco extra e molto terrestre, ad Atlanta, comprò una pista di atterraggio, uno sterrato di due chilometri, con una manica del vento e un ufficetto. Si era messo in testa di costruire aerei. Lì. Un giorno si presentarono due tizi vestiti di nero, con cravatte nere, chiaramente due agenti dell’FBI. Lo avevano preso per un narcotrafficante. Evitò l’arresto ma gli confiscarono tutto».
Comprò persino un rimorchiatore.
«Un’altra genialata delle sue. Un guscio di ferro di 36 metri, attrezzato per il giro del mondo. Non uscì mai da Porto Santo Stefano. Aveva una fantasia quasi infantile, fino a 87 anni. Mi regalò una penna per scrivere a testa ingiù. “La usano gli astronauti”. E una calamita gigantesca. “Casomai ti cadesse un motore fuoribordo”. Era capace di dire a mamma: “Non torno per pranzo”. E partire per una transvolata oceanica. Una volta bussarono alla porta due svedesi. “Suo marito è naufragato ma dice di non preoccuparsi, torna presto”. Riapparve dopo 4 giorni».
Le diete non erano per lui.
«Partiva sempre con un carico di spaghetti, olio e pomodori. Una volta li ha conditi con i cornflakes. La sua roulotte era affollata, cucinava la sarta Ida. Se gli facevi due kg di pasta poteva mangiarseli tutti. Andò da Messeguè, in Svizzera. Gli presentarono un vassoio con due pere cotte. Al che saltò dalla finestra del primo piano e scappò in rosticceria. La seconda volta gli fecero pagare dieci giorni in anticipo, resistette due. La famosa sera di Italia-Germania 4 a 3, con il produttore Italo Zingarelli, 180 chili pure lui, si fecero fuori 60 polpette e non so quanti filetti di baccalà».
L’ultimo ricordo.
«Puoi anche avere Superman come padre, ma arriva il momento in cui lo vedi diventare fragile. Quando ha capito che non poteva più giocare, si è lasciato andare. Non c’è da sette anni però è come se si fosse “virtualizzato”. È ancora qui. Sentiamo il suo passo, il vocione, il profumo, una sera sì e una no lo vediamo in tv. Non era un santo o un divo, ma uno di famiglia. La sua ultima parola fu: “Grazie”