La Stampa, 7 gennaio 2024
Intervista a Riccardo Muti
Nell’anno che si è aperto, un cerchio sta per chiudersi. Riccardo Muti compie quello che probabilmente sarà l’ultimo tour europeo alla guida della Chicago Symphony Orchestra, di cui è stato direttore musicale dal 2010 al 2023, ricevendo infine il titolo di direttore emerito a vita, mai assegnato prima nella storia secolare del prestigioso complesso americano. Inizierà l’11 gennaio a Bruxelles e finirà in Italia, il 26 al Lingotto di Torino, il 27 alla Scala di Milano, il 29 all’Opera di Roma. Non sarà certo un anno facile per il mondo: «A ogni Capodanno speriamo tutti in meglio, però è sempre peggio – afferma il Maestro – ma non mi stanco di ripetere l’appello che Verdi affida al suo Boccanegra: e vo gridando pace e vo gridando amor». In questo amore c’è anche la musica, al culmine di un rapporto allacciato proprio al Lingotto, quando nel settembre 2007, per il festival MiTo, Muti attaccò un tour europeo che gli valse la nomina a direttore musicale a Chicago.
Maestro, come nacque la proposta?
«In verità volevo all’epoca rimanere libero da incarichi, dopo tanti anni al Maggio Fiorentino e alla Scala. L’orchestra m’inseguiva da tempo, anche perché l’avevo diretta solo un paio volte negli Anni 70, ma in Usa mi dedicavo unicamente alla Philadelphia Orchestra. Io sono di vecchio stampo: quando si prende un incarico lo si fa seriamente, oggi invece i direttori musicali sono volanti, hanno due orchestre e magari pure un teatro d’opera; ma non si può servire bene due padroni, tant’è che poi lasciai Philadelphia per essere direttore musicale solo alla Scala. Dopo quel tour del 2007 ricevetti una sessantina di lettere da musicisti che mi chiedevano di accettare l’incarico. Esitai molto, per due volte avevo rifiutato la stessa proposta della New York Philharmonic, ma volli raccogliere l’appello di quella profonda esperienza umana».
Che orchestra è oggi la Chicago Symphony?
«È sempre la più fascinosa e carismatica nell’immaginario musicale mondiale, parte delle Big Five, con New York, Philadelphia, Boston e Cleveland. Quando fu fondata da Theodore Thomas nel 1891 era di fatto un’orchestra tedesca, tanto che nell’archivio si conservano programmi stampati in tedesco, ma era aperta alle novità europee d’inizio 900, come Debussy e Ravel. Poi Fritz Reiner ne fece la meraviglia che è, trasmessa agli altri direttori musicali fino a Georg Solti e Daniel Barenboim prima di me. All’epoca, specie con Solti, era famosa per gli ottoni e la sua potenza sonora. Tuttavia nel periodo vacante dopo Barenboim il rapporto stretto con direttori quali Pierre Boulez e Bernard Haitink l’ha più europeizzata, ponendo attenzione anche alle altre sezioni e con un maggior bilanciamento».
E dopo i 15 anni con lei?
«Il suono è cambiato grazie a due fattori, di cui il primo è il repertorio: ho lavorato sull’opera italiana, specie Verdi ma anche Cavalleria rusticana di Mascagni, incisa rendendo giustizia all’orchestrazione del compositore, liberato dai vizi melodrammatici della cosiddetta tradizione italica. Ne è nata una nuova cantabilità grazie al fraseggio, modellato con l’esecuzione integrale delle sinfonie di Schubert, musicista cantabile per eccellenza. Parallelamente non ho sottratto nulla alla potenza degli ottoni, ma ho rivolto l’attenzione anche ai legni e agli archi, con molti nuovi ingressi, più di un terzo dei musicisti tra cui strepitose prime parti. Ora è un’orchestra che strumentalmente canta più di prima, ma ha sempre la potenza organistica, ad esempio in Bruckner».
Alcune serate del tour sono un omaggio all’Italia. A Torino Lei dirigerà la Sinfonia Italiana di Mendelssohn e Aus Italien di Strauss e un nuovo brano scritto apposta da Philip Glass, The Triumph of the Octagon, in prima italiana.
«La cosa è nata dal fatto che a Chicago avevo diretto e pure inciso la sua Sinfonia n. 11, di cui l’autore fu particolamente lieto. Quando venne a trovarmi in camerino, vide che l’avevo tappezzato di foto italiane, inclusa Castel del Monte: Glass non conosceva questa fortezza e gli raccontai la storia di Federico II di Svevia che l’aveva fatta costruire, una delle mie grandi passioni. Fu colpito dalla forma ottagonale e, in omaggio a me, ha scritto Il trionfo dell’ottagono. Non è l’evocazione dell’immagine del castello, ma, con il linguaggio minimalista del compositore, una costruzione musicale che prende come unità di misura le note della durata di un ottavo di battuta».
Nei programmi di altri concerti europei figura la Terza Sinfonia di Florence Price, prima donna afroamericana eseguita nelle stagioni della Chicago Symphony.
«Fu un’eccellente compositrice tra 800 e 900. Quando ho visto la partitura mi sono subito accorto che è molto interessante, scritta benissimo, nello spirito americano che fonde gli elementi culturali delle persone di colore con quelli europei. La eseguiremo in Lussemburgo e a Vienna, nella volontà di far conoscere all’Europa una donna, una donna afroamericana, che ha avuto la possibilità e il coraggio di frequentare il Conservatorio e poi affermarsi come compositrice in un mondo non molto aperto verso un certo tipo di società».
Con l’incarico di direttore emerito proseguirà in maniera meno formale e impegnativa il rapporto con Chicago. A cosa altro si dedicherà?
«Voglio avere tempo libero e dedicarmi ai miei “cherubini”, ossia ai ragazzi dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, che ho fondato vent’anni fa intitolandola al grande compositore. Dopo il periodo di formazione lì, vedo che sono in diverse orchestre e loro danno un senso alla mia vita. Insegno loro quanto è ardua la professione del musicista d’orchestra, è una missione, non un ripiego per non aver fatto la carriera solistica. Bisognerebbe dare più riconoscimento ai musicisti d’orchestra, passano quarant’anni ad ascoltare dal podio cose intelligenti e spesso meno intelligenti. È anche una questione di eticità: si acquisisce l’orgogliosa posizione di essere parte di una “società musicale”. L’orchestra è l’esempio di come dovrebbe essere costruita ogni società: se s’insegnasse bene e piacevolmente la musica a scuola, si capirebbe che esistono più voci, più idee e più frasi diverse, ma che queste vanno insieme e d’accordo grazie al contrappunto e all’armonia, un’armonia superiore che è il bene di tutti».
Tutto ciò è frutto di sudore e lavoro certosino, cose misconosciute in una società che gira veloce, è basata sull’immagine e trascura la musica colta perché non di massa.
«Siamo in un mondo di gran confusione. I giovani impugnano la bacchetta senza un bagaglio musicale, senza aver fatto studi di composizione né umanistici. Toscanini ripeteva sempre che le braccia sono l’estensione della mente. Oggi, nella società visiva e pure nelle pubblicità, si vedono persone che agitano le braccia, credendo che più ci si agita e maggiore sia l’effetto. Certosino è il lavoro nelle prove, ma dalle locandine d’opera è sparita la locuzione “concertatore” associato a “direttore d’orchestra”. Si dà più importanza alla regia, mentre centrale è il direttore. Forse un giorno si rimetteranno a posto i parametri, ma i giovani sono arrivati alla convinzione che sia più facile agitare una bacchetta che suonare male un violino. Meno ti agiti sul podio e più la musica fluisce: i movimenti di un direttore di gran valore come Leonard Bernstein erano esuberanti perché esuberante era il suo carattere. Il mio maestro Antonino Votto ripeteva sempre che il direttore d’opera deve aver respirato tanta polvere di palcoscenico, anche perché ha il posto migliore in tutto il teatro».
A proposito di teatro, il rapporto con il Regio di Torino è ormai consolidato, febbraio porterà la sua terza presenza e il suo primo Verdi operistico lì, Un ballo in maschera.
«Mi sono trovato molto bene in quel teatro, l’orchestra è ottima e in occasione del Ballo avrò modo di lavorare di più anche con il coro. Speriamo non finisca con l’uccisione di un altro Riccardo, oltre al personaggio dell’opera… Anche perché in futuro potrebbe esserci un Macbeth».
In questo caso lavorerà con il regista Andrea De Rosa, mentre per i due Mozart precedenti, Così fan tutte e Don Giovanni, aveva sua figlia Chiara: completerete a Torino la trilogia mozartiana su testi di Da Ponte?
«È possibile, voglio concluderla, ma devo anche rendermi conto che non ho più tanti anni davanti a me. In teatro lavoro con lei, che è brava, e con qualche altro. Non voglio continuare a litigare con i registi dopo aver lavorato con figure come Antoine Vitez, Peter Stein, Giorgio Strehler: quando ho fatto con lui la trilogia alla Scala, ruotavamo ogni sera un’opera diversa».
Con la Chicago Symphony lei torna nuovamente alla Scala: a Milano qualcuno spera ancora che torni a dirigere i complessi scaligeri.
«Gli anni scaligeri sono stati tra i più belli della mia vita, ho diretto quasi 50 opere, inclusa la Tetralogia di Wagner e anche tutte le Sinfonie di Beethoven. Quando sono andato via nel 2005 ho preso altre strade. Nel cuore ho i Wiener Philharmoniker, che dirigo da 54 anni consecutivi: mi hanno chiesto di dirigere a Vienna il 7 maggio la Nona Sinfonia di Beethoven nel giorno del bicentenario della prima esecuzione, a Salisburgo in estate l’Ottava Sinfonia di Bruckner nell’anno del bicentenario della nascita del compositore. È un grande onore che abbiano chiesto a un italiano di celebrare gli anniversari di musicisti che hanno fatto la storia. Con i Wiener sarò anche in Italia a Ravenna l’11 maggio, a Firenze il 12, a Bari 13». —