La Stampa, 6 gennaio 2024
Il mio Bobbio inquieto
Bobbio invitava a distinguere la figura dello studioso da quella dell’intellettuale. Non ogni studioso è anche un intellettuale. Lo studioso cerca di comprendere, di interpretare, di spiegare il mondo; l’intellettuale giudica, valuta, cerca di influenzare atteggiamenti e comportamenti. Dallo studioso riceviamo insegnamenti, che incidono sulla conoscenza; dall’intellettuale riceviamo messaggi, che influiscono sull’azione. È possibile che da uno studioso provengano molti insegnamenti, pochi o nessun messaggio: cioè, che un valente studioso non sia anche un efficace intellettuale. Più difficile da accettare ci appare l’inverso, che da un intellettuale provengano molti messaggi, pochi o nessun insegnamento: cioè, che un intellettuale influente non sia anche un bravo studioso. Non già che le valutazioni e le indicazioni pratiche derivino direttamente dalle interpretazioni e spiegazioni teoriche; ma su queste dovrebbero basarsi. Semplice e chiaro il commento di Bobbio, tante volte ribadito, all’XI delle Tesi su Feuerbach di Marx: prima di cambiare il mondo, bisogna interpretarlo. Dunque, se un intellettuale non è anche uno studioso attendibile, forse è bene non fidarsi troppo dei suoi messaggi.
Quando i due profili, dello studioso e dell’intellettuale, vanno a comporre l’identità di una medesima figura, è inevitabile l’influenza reciproca: lo studioso condiziona l’intellettuale, e viceversa. Tra i due, per un verso, c’è lo stesso rapporto che intercorre tra descrizioni e prescrizioni, diagnosi e terapia. Per l’altro verso, l’influenza dell’intellettuale sullo studioso può avvenire in due modi. Può accadere che la valutazione distorca l’interpretazione, che la passione offuschi la ragione. Può accadere, ma si deve evitare: attenendosi, diceva Bobbio, all’etica della scienza, che prescrive l’imparzialità e l’avalutatività nell’indagine. Non si può evitare, invece, che l’intellettuale influenzi lo studioso indirizzandone l’attenzione su certi aspetti della realtà piuttosto che altri. La passione accende la ragione e la orienta.
Bobbio non è stato un entomologo dei fenomeni sociali: del diritto, della politica, della cultura. Ne è stato uno studioso appassionato. Passionale e spesso dolente.
Se vogliamo collocare Bobbio nelle grandi correnti della cultura del Novecento, possiamo dire in estrema sintesi che è stato uno dei massimi teorici del positivismo giuridico e del realismo politico. Ma entrambe le formule appaiono subito riduttive, inadeguate a un pensiero problematico e dilemmatico come quello di Bobbio. Il positivismo bobbiano si fonda sulla tesi della separazione rigorosa tra diritto e morale, ossia tra il diritto quale è e il diritto quale dovrebbe essere. Ma Bobbio, come ha suggerito uno dei suoi primi allievi, è un «positivista inquieto»: l’inquietudine riguarda il problema della giustificazione del diritto, che non può non appellarsi a valori meta-giuridici. Per Bobbio, non si può affermare né che il diritto ingiusto non sia diritto, né che il diritto sia di per sé giusto. Il diritto non ha alcun bisogno di essere fondato su valori morali per essere quello che è; ma il diritto non deve essere obbedito semplicemente perché è diritto. Il diritto ingiusto è diritto, e deve essere disobbedito, là dove la voce della coscienza chiami all’obiezione. Come di fronte ai fascismi.
Quanto alla teoria politica, Bobbio è sostanzialmente un realista, come Machiavelli: un osservatore disincantato dei fatti, della storia del mondo, che per lui assomiglia davvero, come diceva Hegel, al «bancone del macellaio». I realisti di tutti i tempi sono quelli che non si lasciano incantare dai sogni delle utopie, né ingannare dalle false giustificazioni delle ideologie (nel significato negativo di questa nozione ambigua). Ma il realismo di Bobbio è «insoddisfatto», come ha suggerito un altro allievo, perché non è accompagnato da quella specie di compiacimento cinico che caratterizza gran parte delle teorie realistiche della politica. Bobbio non si ferma alla diagnosi pessimistica e alla prognosi infausta sui destini umani, bensì alimenta costantemente la riflessione sulle terapie possibili per combattere i mali perenni della vita politica. E le terapie preferite da Bobbio, quelle che giudica più efficaci, sono di tipo istituzionale: sono quelle che si rivolgono al diritto.
Ma – se ha senso porsi questa domanda – qual è il fine del pensiero di Bobbio? Il fine del Bobbio teorico, lo ha dichiarato con nettezza, è «esclusivamente conoscitivo, non propositivo» e va perseguito tenendo fermo al principio dell’imparzialità come etica della scienza e dell’insegnamento. Tante volte gli allievi lo hanno sentito citare Max Weber: «La cattedra non è né per i demagoghi né per i profeti». Accanto al teorico, però, troviamo l’altro Bobbio: lo scrittore civile. Né profeta né tanto meno demagogo, ovviamente. Ma nondimeno immerso nella vita pubblica del suo tempo, partecipe attivo dei destini politici del suo paese e del mondo. È il Bobbio sostenitore dell’ideologia (questa volta, nel senso più ampio e nobile del termine) liberal-socialista, dei valori della libertà, dell’eguaglianza e della giustizia, degli ideali della democrazia, dei diritti umani e della pace.
L’ultima parola del Bobbio ideologo, o se si preferisce, la sua meta-ideologia, è stata la difesa del pluralismo e l’elogio della tolleranza. Condivido toto corde il ritratto di Bobbio come maestro dell’ascolto, offerto da Marco Revelli su questo giornale. C’è un brano di Bobbio, oltre a quelli citati da Revelli, che molti allievi hanno eletto a emblema della sua identità intellettuale e morale: «Dalla osservazione della irriducibilità delle credenze ultime ho tratto la più grande lezione della mia vita. Ho imparato a rispettare le idee altrui, ad arrestarmi davanti al segreto di ogni coscienza, a capire prima di discutere, a discutere prima di condannare. E poiché sono in vena di confessioni, ne faccio ancora una, forse superflua: detesto i fanatici con tutta l’anima». Non è soltanto una battuta: la tolleranza ha bisogno di intransigenza, come proprio limite e fondamento. E si osservi: la tolleranza esige bensì il rispetto delle idee altrui, ma il rispetto delle idee inizia con la difesa del diritto di ciascuno ad esprimere le proprie e si risolve nel dovere di comprenderle e discuterle tutte senza pregiudizi; certo non esclude la critica, anche la più radicale, e quando è il caso, la condanna.
È il caso di certe idee, non nuove, che vengono oggi riproposte da posizioni di potere. Alle quali vale la pena replicare con le parole di Bobbio, scritte nel 1996: «In questi ultimi anni di revisionismo storico mi accade di constatare con amarezza che il rifiuto dell’antifascismo in nome dell’anticomunismo ha finito spesso di condurre a un’altra forma di equidistanza che io considero abominevole: tra fascismo e antifascismo. Questa equidistanza preclude alle giovani generazioni di cogliere la differenza tra uno stato di polizia e uno stato di diritto, e di rendersi conto che il fascismo, la prima dittatura imposta nel cuore d’Europa dopo la prima guerra mondiale, è stata un’onta nella Storia di un paese che era da tempo nel numero delle nazioni civili. Di quest’onta ci libereremo soltanto se riusciremo a renderci conto sino in fondo del prezzo che il Paese ha dovuto pagare per la prepotenza impunita di pochi e l’obbedienza, se pure coatta e non sempre ben sopportata, di molti».
Ieri, mentre mi accingevo a stendere queste note, mi è giunta la notizia della scomparsa di Gastone Cottino, studioso eminente e intellettuale partigiano, che a suo tempo fu il presidente del Comitato per le celebrazioni del centenario di Norberto Bobbio. Con commozione, a lui dedico questo piccolo ritratto del comune maestro. —