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 2024  gennaio 06 Sabato calendario

Intervista a Mario Vanacore

«L’unica volta che ho visto Simonetta Cesaroni era morta». La relazione dei carabinieri descrive Mario Vanacore come un killer spietato. Lui, oggi 64enne, titolare di una ditta a Torino, si difende. «Ce l’hanno con la mia famiglia».
Chi?
«Dei personaggi. Magari qualcuno che abbiamo anche querelato».
Ha presentato un esposto?
«In primavera. Insieme al mio avvocato Claudio Strata».
Per cosa?
«Calunnia e diffamazione. Ero stanco di essere indicato come responsabile del delitto di via Poma».
Suo padre, un inquilino dello stabile, il datore di lavoro. Mancava solo lei tra i sospettati.
«Della famiglia Vanacore?»
Tra tutti quelli che sono stati accusati. La pensa diversamente?
«No, ma sono sconcertato. Arrabbiato, molto arrabbiato. La mia posizione era stata esclusa anni fa».
Com’era stata aperta?
«A Roma sono arrivato per combinazione quel giorno lì. Ed ero presente quando abbiamo trovato la ragazza».
Cosa si ricorda del 7 agosto 1990?
«Tutto».
Orari, spostamenti?
«Con mia moglie e mia figlia, che all’epoca aveva due anni, abbiamo viaggiato di notte perché non avevamo l’aria condizionata. Siamo arrivati alle 9 del mattino. E sono andato in giro con mio padre. Era molto orgoglioso del suo lavoro da portiere. Rispettato e amato da tutti i condomini».
Un particolare che le è rimasto impresso?
«Mi aveva fatto vedere un carrettino verniciato di marrone. La polizia aveva detto che erano macchie di sangue, in realtà erano di vernice. Molto evidenti. Quello sì».
Un carrettino per cosa?
«Di metallo. Mio padre lo utilizzava per portare in giro le piante del condominio da annaffiare».
Simonetta Cesaroni è stata uccisa nel tardo pomeriggio. Lei dov’era?
«Con mio papà e la mia matrigna abbiamo pranzato e siamo andati a dormire. Ci siamo alzati verso le 17. Siamo andati in farmacia, dal tabaccaio, in altri luoghi».
Suo padre non aveva la terapia per i dolori alla schiena?
«Sì sì, non è che siamo stati sempre insieme. Poi abbiamo cenato e lui è andato a dormire dal signor Valle, che era anziano».
Quando vi siete messi a cercare Simonetta?
«Sono arrivati alcuni personaggi che hanno bussato alla porta e ci hanno chiesto se potevamo andare a cercare la ragazza in ufficio».
Secondo le accuse, avete perso tempo per sviare le indagini.
«La mia matrigna ha avuto un po’ di titubanza, non si fidava. Non riconosceva nessuno».
Era lì quando è stato ritrovato il corpo della ragazza?
«Sì. Abbiamo bloccato sua sorella perché non lo vedesse. Io e il suo fidanzato siamo entrati nella stanza, ci siamo chiusi dentro e abbiamo chiamato i soccorsi».
Una scena che riesce a dimenticare?
«No. Anche se devo dire che c’era una luce debole e non ho visto tanto sangue. Solo un alone intorno ai capelli. Quell’odore lo ricorderò per tutta la vita».
Lei conosceva Simonetta?
«Non l’avevo mai vista prima».
E quegli uffici?
«Nemmeno».
Secondo le accuse, era andato lì per fare gratuitamente delle telefonate interurbane. Non è vero?
«È assurdo. Com’è assurdo il fatto che vogliano chiudere questa storia in questo modo».
In quale modo?
«Forse è stato Mario Vanacore, ma non abbiamo le prove».
I carabinieri la ritengono responsabile di un crimine efferato.
«Di certo il delitto è stato efferato, ma bisogna capire chi è l’autore».
Secondo lei? Chi è l’assassino?
Non risponde.
Ha creduto all’ipotesi del coinvolgimento dei servizi segreti?
«Sì».
E come mai?
«Così».
Non sia evasivo.
«Non voglio essere frainteso».
E all’ipotesi del serial killer?
«No, a quella no».
Suo padre Pietro, detto Pietrino, è stato il primo sospettato. Ventisei giorni in carcere.
«La nostra vita è segnata. Viviamo con questa spada di Damocle sulla testa. Il 9 marzo 2010 mio padre si è suicidato. La mia matrigna è sola e non sta bene».
Il biglietto di suo padre recitava così: “20 anni di sofferenze e sospetti ti portano al suicidio”. Come rilegge ora quel j’accuse?
«Quelle parole hanno un suono amaro. Stiamo rivivendo quei momenti».
Cosa le direbbe adesso?
«Forse mi darebbe una mano. Lui si è sempre ritirato, mai difeso. Si è sempre sentito in colpa per avermi coinvolto in questo caso».
Ne parlavate?
«Mai. Aveva paura di qualsiasi cosa, di tutto e di tutti. Non si fidava di nessuno. E aveva ragione. Sa quando finirà questa storia?».
Mi dica.
«Quando troveranno l’assassino. Vorrei che pagasse per quello che ha fatto. Anche indirettamente. Ha coinvolto due famiglie».
È mai andato a dire una preghiera sulla tomba di Simonetta?
«No».
Ha mai parlato con la sua famiglia?
«Avrei voluto farlo. Ma ho sempre avuto l’impressione che ce l’avessero con noi».
Può farlo ora.
«Forse non è il momento buono. Però vorrei esprimere loro la mia vicinanza. Nemmeno loro hanno giustizia».
Un’ultima domanda. La sua agenda telefonica risulterebbe tra gli oggetti ritrovati in quell’ufficio. Come lo spiega?
«Apparteneva a mio padre. Fu ritrovata, dicono, dal papà di Simonetta fra gli effetti personali della figlia e restituita in questura. Stranamente di quella agenda non c’è traccia fra i reperti. Scomparsa». —