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 2024  gennaio 07 Domenica calendario

Intervista a Carlo Buccirosso

Su Wikipedia c’è una specifica anomala: è molto riservato.
È verissimo.
Però…
Sul resto non mi limito.
Mai.
Ho appena chiamato un collega: è stato garbato, carino, sui social ha scritto in maniera dettagliata dello spettacolo, compresa tutta la trama. Tutta!
Dolore.
La mia storia ha almeno cinque colpi di scena, due fondamentali. E lui li svela? Ho impiegato quattro mesi e mezzo per scriverla. “Il mio era un complimento”, mi ha spiegato.
Ci crede ai complimenti post-teatro?
(Immediato) No! Però me ne accorgo; comunque quando c’è un regista bravo, lo spettacolo cresce giorno per giorno: lo accudisce come un figlio.
È regista e attore…
Una vocazione; ai giovani consiglio sempre di perfezionarsi in una buona scuola.
Ha frequentato l’accademia?
No perché la mia era una vocazione simile a quella di uno che vuole diventare prete; (cambia tono) non ho frequentato neanche una scuola di dizione, mi è bastato stare due anni nella compagnia di Orsini.
(Carlo Buccirosso è una rarità. Con lui scherzo, farsa, dramma, resilienza, capacità di adattamento, coraggio e intraprendenza si intrecciano, si sovrappongono in una maschera prismatica. “Ripeto: la mia è una vocazione”. E per questa vocazione sembra John Belushi in The Blues Brothers quando viene illuminato in chiesa e ripete “sono in missione per conto di Dio”. Ora è a Roma, in teatro, con Il vedovo allegro. Un successo)
Orsini è un maestro.
È stato come andare in Inghilterra per studiare l’inglese; con lui ho imparato l’italiano.
La rimproverava?
Moltissimo ed ero l’unico napoletano della compagnia; mi prese dopo avermi visto al Piccolo di Milano per un ruolo da marchese misantropo; (ci ripensa) mi riprendeva anche perché dopo lo spettacolo non andavo a cena con lui ma con i tecnici.
Si sentiva snobbato…
A me piace cambiare: magari in un pub, mentre lui sempre al ristorante; quando mi ha chiamato tremavo, eppure non ero un ragazzino, era il 1992.
Prima dove è stato?
Ho compiuto tutta la vecchia trafila, a partire dal militare, quello serio, pesante: mesi e mesi a Novara in mezzo al nonnismo; poi mi sono iscritto a Giurisprudenza.
Nonnismo?
Cazzo, mi hanno ucciso.
È salvo.
All’inizio no, poi ho capito.
Cosa?
Come sopravvivere: mi trovavano simpatico, quindi sono diventato una mascotte. Erano terribili.
Altra “scuola”.
C’era il jukebox: chiudevano le matricole in un armadietto di ferro, poi buttavano dentro cento lire ed eri costretto a cantare quello che chiedevano.
Lei cantava?
No, prestavo le cento lire.
Un collaborazionista.
(Ride) È vero; (torna a prima) Umberto mi ha dato tanto tra rimproveri ed elogi.
Però intimorito.
All’inizio sì, poi ho il mio carattere: i piedi in testa non me li mette nessuno e alla fine lo fronteggiavo bene, per alcuni giorni non ci siamo neanche parlati.
Caratterino.
C’è quando uno sa cosa vuole.
Cosa vuole?
Rispetto sul lavoro.
Sì, ma dalla vita?
Maggiore meritocrazia. E non lo dico solo per me.
Con la meritocrazia dove sarebbe?
Molto in alto rispetto ad altri colleghi, lavorerei di più. Però dico tanti “no”.
Si è pentito di un no?
Ho sbagliato nella lettura di un film, non l’ho capito.
Qual era?
Smetto quando voglio.
È una trilogia…
Ma conta il primo, di solito i sequel non funzionano bene.
Ha girato il sequel di Febbre da cavallo.
(Ride) L’ho reso più bello; (cambia tono) da quel film è forse iniziata la vera carriera.
Cioè?
Quelli della Warner Bros vennero alla prima e dopo la proiezione mi fermarono: “È talmente bravo che potrebbe diventare la nostra mascotte al posto di Willy il Coyote”; (pausa) me lo dissero in inglese, neanche capii.
E poi?
Mi contattarono per un contratto di tre film, ma è intervenuto uno che mi ha fatto saltare l’offerta.
A quell’uno l’ha giurata.
(Cambia tono) Certo.
Resta che ha lavorato con Proietti.
Prima delle riprese alcuni mi avevano allarmato: “Occhio che Gigi è complicato, difficile, se non si trova bene sono cavoli”. Invece tra di noi c’è stato un rispetto clamoroso.
Torniamo agli inizi: dopo il militare?
Giurisprudenza.
Voto di laurea?
(Sospiro) L’unica brutta notizia è che ho lasciato quando mancava un solo esame, ma non c’era più la voglia, già lavoravo in teatro; (pausa) avevo la media del 28.
Nel caso, avvocato o magistrato?
Il magistrato è pericoloso.
Esordio a teatro.
Nel 1978 con Tato Russo al San Ferdinando in Ballata e morte di un capitano del popolo; interpretavo quattro ruoli.
Serie A.
La fortuna è che mi avevano notato in uno spettacolo da dilettanti e portato in alto.
Bel coraggio.
Il primo anno sono stato male tra studio, lavoro e famiglia che si opponeva; credevo di mollare; (pausa) purtroppo la mia famiglia non ha potuto assistere ai successi.
Da quale Napoli arriva?
Quella più popolare possibile e immaginabile.
Le piace sempre?
Tantissimo quella di quando ero bambino perché sono cresciuto nel periodo migliore, del benessere da conquistare, delle prospettive, dei sogni; (cambia tono) quando nel 1980 sono tornato dal militare c’era stato il terremoto, ma non sapevo nulla, i miei me l’avevano nascosto; ricordo la metropolitana di Napoli invasa da sfollati, ci dormivano, ma i miei camminavano per casa senza preoccuparsi della continue scosse.
E lei?
Morto di paura; però quella Napoli lottava, oggi per alcuni aspetti è troppo frivola ed egoista.
Qual è il “rumore” di Napoli?
La voce di un tizio che vendeva la ricotta di fuscella: girava per le vie con un cesto in testa; e poi la Napoli dei contrabbandieri di tabacco: quando arrivava la Finanza sentivo sempre qualcuno che ripeteva “u cafè, u cafè”.
È più vicino a Eduardo De Filippo o a Totò?
Eduardiano, anche perché quando scrivo seguo la tradizione, uso temi legati alla famiglia, al sociale; come attore guardo più a Peppino, gioco di rimessa.
Eduardo De Filippo lo ha conosciuto?
Con lui sono stato comparsa, ma solo nel primo atto, così restavo dietro le quinte per vedere il secondo; quando Eduardo passava mi vedeva e chiedeva al direttore: “Chi è questo?”. E mi mandava via. Passavano due minuti e tornavo.
Ci ha mai parlato?
Una volta. Era meglio evitare.
Perché?
Chiesi al figlio Luca: “Secondo te posso fare la comparsa in televisione?”. E lui: “Parla con papà”. “No, no”. “Tranquillo, si sta truccando”. Mi avvicino, e allora non c’erano le porte, ma le tendine. Aspetto qualche minuto per calmarmi, quindi busso sul muro. “Chi è?”. “Direttore, sono una comparsa…”. “Ma chi è?”. “Sono una comparsa…”. “Ma lei, chi è?”. In realtà intendeva: chi è per presentarsi qui.
Bell’approccio.
Però mi disse di sì.
È stato in tv pure con Salemme.
E il successo mi ha sorpreso.
Le piace la tv?
(Ci pensa) C’è il regista che ti dà i tempi, ti taglia, gli sceneggiatori che ti dicono quello che devi o non devi dire. La trovo complicata, più del cinema.
Con Salemme è stato sodalizio.
Nove anni importanti tra cinema, teatro e tv; con lui ho capito che il teatro è pure divertimento, mentre prima era solo sofferenza.
Al cinema interpreta spesso il ruolo da cattivo o da stronzo.
Quello dello stronzo me lo sono disegnato.
Le viene benissimo.
Non posso ammettere di esserlo, non è vero. Di natura sono buono, piuttosto pignolo.
Strappa risate pure quando è cattivo.
Ho capito una cosa: nella vita non bisogna perdersi in troppi progetti. Invece oggi gli attori pretendono pure una carriera da cantanti, showman, giullari in tv. Vogliono apparire ovunque. Li vedo dappertutto. E alla fine perdono credibilità.
Invece?
L’attore si deve nascondere il più possibile e poi stupire. Non si deve montare la testa.
Se l’è montata dopo aver vinto il David?
Zero, anzi è stato un danno: per un anno mi hanno chiamato meno.
Come mai?
Nel cinema scattano altri meccanismi; quello che conta è stare sempre dietro a qualcuno, frequentare i salotti.
Per un periodo è stato troppo schiacciato tra i Vanzina e Salemme.
Ci ho messo molto a uscire dal cliché del piccolo-medio-borghese che fa la vittima, un ruolo assegnatomi da Salemme; a un certo punto mi sono sentito stretto, sono uscito dalla sua compagnia, e ho iniziato a scrivere commedie con ruoli più cinici.
È Pomicino ne Il Divo di Sorrentino.
Con lui ho lavorato pure ne La grande bellezza, mentre ho rifiutato È stata la mano di Dio.
Come mai?
Ho ringraziato ma era un ruolo con due o tre passi indietro rispetto ai due film precedenti.
Pomicino.
Mi chiamò appena uscito dal film per lamentarsi di come ballavo durante la scena della festa a casa sua: “Non sono così”. “E io cosa ne so?”; poi mi invitò al suo compleanno.
Siete diventati amici?
No, mai più sentito.
È un comico-serio.
Davvero? La ringrazio; (pausa) il bello è che ero di natura timido, quindi la sofferenza è stata tanta: diventavo rosso, le orecchie viola, parlavo freneticamente, non pensavo, allora balbettavo. Il teatro mi ha dato la tranquillità. Eppure mi dicevano che ero bravo.
Non ci credeva.
No, dentro sentivo un’emozione troppo forte; non scherzo, ma quando mi ha chiamato Orsini, non sapevo se accettare, poi nel momento in cui scoprii la paga rimasi a bocca aperta e un “o cazzo” sulle labbra.
Quanto?
Paga quadruplicata.
E lì?
Andavo in scena con il cuore in gola e il pensiero: la devo meritare.
Quali sono i suoi amici nel mondo dello spettacolo.
Non tanti. In primis Sabrina Ferilli, donna vera, sincera, persona rarissima; poi Nancy Brilli e Giorgio Panariello.
A cosa ha rinunciato per la sua vocazione?
A una fetta di libertà. E poi vivi con i bagagli in mano, solo alberghi, è difficile mantenere una relazione sentimentale o i rapporti con i parenti. E poi avere o pensare ai figli.
Lei chi è?
Un comune mortale. Tra paure, ansie, preoccupazioni e insicurezze.