Avvenire, 7 gennaio 2024
Iran, rifiuta di indossare il velo anche mentre riceve 74 frustate
Non saranno le frustate a piegare il movimento Donna, Vita e Libertà che in Iran si oppone al regime degli ayatollah e alla sua misoginia. Nato dal sangue sparso dalla giovane curda Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale nel settembre del 2022 perché non indossava correttamente il velo e morta tre giorni dopo in ospedale per le conseguenze delle percosse, il movimento non scende più apertamente in piazza ma continua a farsi sentire in altre forme. Sfidando la violenta repressione del regime, che causò uccisioni e ondate di arresti, e il suo tentativo di silenziarlo. L’ultima in ordine di tempo ad essere condannata per aver violato la legge che impone alle iraniane di indossare l’hijab in pubblico è ancora una giovane curda, come Mahsa. Si chiama Roya Hesmati, ha 33 anni ed è un’attivista. Aveva diffuso una sua foto senza il velo scattata sul Keshavarz Boulevard a Teheran. Per questo era stata condannata a un anno di reclusione con la sospensione della pena, a 74 frustate e al divieto di lasciare il Paese per tre anni, riporta l’Ong curda per i diritti umani Hengaw che ha sede in Norvegia.
La pena, eseguita il 3 gennaio, ha rischiato di essere aggravata perché l’attivista si è tolta il velo prima dell’esecuzione della sentenza. A raccontarlo è la stessa Roya sulla sua pagina Facebook, riuscendo a bucare il muro della censura che impedisce alle voci di tante iraniane di arrivare in Occidente. «In nome delle donne, in nome della vita, le catene della schiavitù sono state spezzate», avrebbe gridato l’attivista mentre veniva frustata. Una donna velata, probabilmente una dipendente del tribunale, le ha messo con la forza un hijab sulla testa. Roya è stata frustata sulle spalle, sulla schiena, su un gluteo e su una gamba.
«Ho dovuto affrontare la mia condanna a 74 frustate per aver violato l’obbligo di indossare l’hijab», ha scritto sui social utilizzando l’hashtag “Jin, Jiayn, Azadi” (“Donna, Vita, Libertà”).
«Accompagnata dal mio avvocato, sono entrata nell’ufficio del procuratore del Distretto 7 togliendomi deliberatamente l’hijab. Ignorando gli ordini dei funzionari, ho mantenuto la mia posizione. Un agente ha minacciato ulteriori punizioni se non avessi obbedito, ma mi sono rifiutata di indossare l’hijab», racconta. «Sono stata ammanettata e condotta in un seminterrato, che assomigliava a una camera di tortura medievale». Nel terribile resoconto si descrive una «sala delle esecuzioni, con pareti di cemento e un minaccioso letto da esecuzione». «Il giudice mi ha chiesto se stavo bene e io sono rimasta in silenzio, mostrando la mia resistenza».
Roya spiega che le è stato ordinato di prepararsi per le frustate. «Ho appeso il cappotto e la sciarpa, rifiutandomi di indossare l’hijab nonostante la loro insistenza. Quando sono iniziate le frustate, ho recitato in silenzio una poesia sulla liberazione e la resistenza. Nonostante il dolore, non lasciavo loro vedere la mia sofferenza. Dopo la punizione, ho continuato a sfidare le loro richieste di indossare l’hijab, simbolo della mia ferma posizione contro l’oppressione». ( E.A.)