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 2024  gennaio 06 Sabato calendario

Nascita dell’Impressionismo

L’appuntamento
Paris 1874. Inventer l’Impressionnisme, a cura di Sylvie Patry e Anne Robbins con Mary Morton e Kimberly Jones, Parigi, Musée d’Orsay, dal 26 marzo al 14 luglio (Info Tel +33 1 40 49 48 14; musee-orsay.fr). La mostra è organizzata dal Musée d’Orsay, dal Musée de L’Orangerie (sempre a Parigi) e dalla National Gallery di Washington dove si sposterà dall’8 settembre
Il percorso
La mostra celebra, attraverso una selezione di 165 opere (130 degli impressionisti e 35 del Salon ufficiale), i 150 anni dalla esposizione aperta il 15 aprile 1874 nello studio del fotografo Nadar che segna la nascita del movimento. Tra gli eventi collaterali la mostra immersiva Un soir avec les impressionnistes
in programma al Musée d’Orsay dal 26 marzo all’11 agosto. Giovedì 11 gennaio, alle 19, nell’Auditorium
del Musée la curatrice
Anne Robbins presenta
la mostra aprendo il ciclo
di conferenze dal titolo L’aventure impressionniste

Per capire quello che successe centocinquant’anni fa, potreste pensare all’Olanda di Michels e Cruijff, al Milan di Sacchi e Van Basten o al Barcellona di Guardiola e Messi. Nella primavera del 1874 accade qualcosa di simile. Come una partita di calcio, in cui la squadra data per vincente viene colta di sorpresa e sconfitta da quella meno accreditata, addirittura sbeffeggiata. Calcio totale, marcatura a zona, rapidi passaggi, repentini cambi di gioco. È come quando un edificio consolidatosi nei secoli, all’improvviso, vacilla e, poi, crolla. C’è solo una parola per descrivere l’atmosfera di quei mesi: choc. Un termine che allude all’impatto con l’inaudito, allo stato d’eccezione, alla violazione di consuetudini e di aspettative. Un capitolo ulteriore di quell’appassionante querelle des anciens et des modernes che è stata ricostruita con finezza erudita da Marc Fumaroli in Le api e i ragni (Adelphi). Gli Antichi: si rifanno all’antichità greco-romana, per riaffermare la centralità di valori come bellezza, armonia, moralità, sapienza. E i Moderni: si impegnano per superare paradigmi desueti, nella convinzione che il presente abbia un proprio linguaggio, un proprio gusto, propri principi. I primi guardano ai classici come a modelli insuperabili; gli altri pretendono di essere padri di sé stessi, dedicandosi al culto del nuovo e al piacere del futuro. Come una finale di Champions: gli Antichi chiusi in area, mentre i Moderni attaccano da ogni parte. Dunque, i ragni, per i quali, scrive Fumaroli, eseguire un’opera è «un trovare e un ritrovare, che ha per merito principale il rinnovo dei luoghi di un’eterna dimora comune». E le api, che si concedono «all’oggettività del caso e a una mano invisibile», per dare vita a creazioni «autofaghe».

Lo scenario di questo agone è Parigi, enorme organismo in movimento, crocevia per assimilare e per distribuire energie e idee, capitale della Beauté moderne, che affascina artisti, poeti e intellettuali di tutta Europa. Per respirare questo benefico vento di follia, occorre recarsi ai Salon, antenati delle Biennali e delle fiere contemporanee. Qui, scriverà Guillaume Apollinaire, si viene «da ogni parte del mondo come si va a Lipsia per certe merci o come si andava una volta a Beaucaire o a Novgorod».
Il 15 aprile 1874 accade qualcosa di imprevisto.
Da una parte, gli Antichi. Che espongono al Salon ufficiale, impenetrabile castello dove si tramandano le tradizioni. Si tratta di pittori e di scultori minori, oggi dimenticati, sostenuti da critici portati a comportarsi come corifei del mondo di ieri. Tra questi pesi piuma della storia dell’arte: Paul Dubois, Pierre Lehoux, Henri Gervex. Che, con Satyre jouant avec une bacchante, ci consegna un esercizio di riscrittura, in chiave simbolica, di un episodio legato alla sfera del mito, fondato sulla concezione dell’arte come attività spirituale e antinaturalistica, tesa a rievocare il fantasma della classicità, posto in stridente contrasto con le turbolenze della cronaca.
Dall’altra parte, i Moderni. Sono barbari, per molti osservatori borghesi. Una banda di giovani eretici che, negli stessi giorni in cui si inaugura il Salon ufficiale, si ritrova nello studio del fotografo Nadar, in Boulevard des Capucines. Cronista di quell’evento, Émile Zola che, nel romanzo L’opera, scriverà: «Si inaugurava il Salon des Refusés, una novità di quell’anno. (...) La folla, già densa, aumentava di minuto in minuto poiché tutti disertavano il Salon ufficiale, correvano spinti dalla curiosità, stuzzicati dal desiderio di giudicare i giudici, divertiti, soprattutto, fin dalla soglia, dalla certezza di vedere cose estremamente buffe».

Quell’esposizione clandestina viene sbeffeggiata e derisa da tanti critici conformisti. Tra quegli artisti «rifiutati» dal Salon, vittime di giurie ottuse e «sanguinarie» (secondo Émile Zola), si nota l’assenza del padre della nascente tendenza: Édouard Manet. In mostra, tra gli altri, Berthe Morisot, Edgar Degas, Camille Pissarro, Auguste Renoir, Alfred Sisley, Paul Cézanne. E Claude Monet. Che presenta un’opera eseguita due anni prima en plein air, senza bozzetti preparatori. Pennellate veloci, vibranti, luminose. Colori semplicemente accostati. Un’istantanea soggettiva. Una veduta del porto di Le Havre, rielaborazione di tracce dell’infanzia del pittore. In primo piano, la minuscola sagoma di un uomo che rema in piedi su una barca, in compagnia di un’altra figura. Nell’acqua, alberi e gru, quasi dissolti nel crepuscolo mattutino. Lievemente sollevato nel cielo, un piccolo sole arancio, il cui riflesso infuocato si diffonde nell’acqua. Ecco il giorno che sembra sorgere, come il singhiozzo di chi è stato appena svegliato cantato da Charles Baudelaire ne Le crépuscule du matin. Descrivendo quest’opera, con brio satirico, il critico Louis Leroy esclamerà: «Impressione, levar del sole».
Una battuta che, subito, si fa sigillo. E annuncia la nascita del gruppo impressionista, animato da artisti che inventano la prima ipotesi di avanguardia, sulle cui orme muoveranno, nel Novecento, cubisti e futuristi, dadaisti e surrealisti, costruttivisti e neoplasticisti, espressionisti e neoespressionisti. Siamo dinanzi all’inizio del modernismo. «Una specie di arco trionfale da cui l’arte europea è passata per entrare nel XX secolo», ha scritto John Berger.
Monet, Manet, Morisot, Degas, Pissarro, Renoir, Sisley e Cézanne condividono soprattutto differenze. Dal punto di vista ideologico-politico, seguono orientamenti diversi: Pissarro è di sinistra, Degas conservatore, gli altri sono piuttosto indifferenti. Anche le inclinazioni poetiche non sono contigue: Monet, Renoir, Sisley e Pissarro scelgono di stare all’aria aperta, per afferrare le impressioni luminose con una tecnica rapida e senza ritocchi; Cézanne e Degas, invece, dedicano tempo ed energia allo studio dei capolavori del passato. Nonostante queste distanze, senza attenersi a un programma, quegli «incongregabili» (come li avrebbe definiti Savinio) si richiamano a valori affini: il rifiuto dell’accademismo trionfante ai Salon; l’idea dell’arte come dispositivo privilegiato di conoscenza del mondo; la contestazione delle consuetudini proprie degli atelier; la vocazione realista; il lavoro «dal vivo»; la predilezione per la pittura di paesaggio.
Questi elementi vengono declinati in modi diversi. Dedito a un’ostinata meditazione sull’essenza del fare arte, Degas si affida all’intelletto, al rigore, alla forma. Attratto dalla bellezza femminile, Renoir dipinge tele che si danno come tripudio di sensualità e di voluttà. Infine, Manet, le cui opere esibiscono durezza, vigore, solidità: la natura è ritratta con una «brutalità dolce», rileva Zola. Il quale ha colto la tensione già segretamente impressionista sottesa all’Olympia (1863), dove la donna è trattata come un mero pretesto per dipingere: «Vi serviva una donna nuda, avete scelto Olympia, la prima venuta; vi servivano macchie chiare e luminose, avete messo un bouquet; vi servivano macchie nere, avete messo une negresse e un gatto».

Ma, per incontrare la più intransigente voce del movimento, occorre riferirsi proprio all’autore di Impression, soleil levant, «unico per la sensibilità della retina, supremo analizzatore della luce, maestro dello spettro» (Paul Valéry). Monet qui si fa aedo di uno scandalo, senza mai tradire una precisa convinzione estetica: «Il soggetto ha per me un’importanza secondaria: io voglio rappresentare ciò che vive tra l’oggetto e me».
Grazie a quel piccolo olio su tela (48 per 63 centimetri), l’arte non è più stata quello che fu per quattro secoli. Declinano liturgie e ritualità. Una liberazione. Concepire l’arte non come esperienza raggiunta, ma come esperienza inesatta e fragile. Sottrarsi a ogni nostalgia e a ogni abbandono concettuale («Monet non è che un occhio, ma buon Dio che occhio!», dice Cézanne). Farsi profeti di una «modernità liquida», instabile, insicura. Evitare fughe verso la trascendenza, per sottomettersi alle leggi dell’immanenza. Dare al «mondo non scritto» la possibilità di esprimersi (per dirla con Italo Calvino). Porsi di fronte al tema scelto. Curvarsi sulle apparenze della quotidianità. Donare spazio all’essenza dionisiaca di un tempo policromo e plurale. Porsi in ascolto di una concatenazione discontinua di attimi irripetibili, dall’aspetto brutale. Aderire al presente, colto nella sua immediatezza, senza passato né futuro. E ancora: elevare l’attrazione pulsionale a metodo. Riscoprire la carica celata in quello che i greci chiamavano thaumazein (meravigliarsi). Eliminare ogni filtro tra artista e oggetto. Far coincidere l’immagine interiore con quella esteriore. Soggettivizzare il paesaggio. Tradurre ciò che gli occhi vedono, oltre convenzioni e pudori. Evocare la potenza della natura, indugiando sull’atmosfera. Osservare direttamente il vero, assegnando alla luce la necessaria egemonia nel regno del visibile. Prediligere rifrazioni e trasparenze dell’acqua, che hanno la stessa importanza delle cose ferme e certe. Per trasformare quel che appare in visione. Dunque, celebrare il potere dell’innocenza: non c’è niente da nascondere in uno stile che sembra prefigurare il «pensiero meridiano» teorizzato da Camus. Sperimentare una tecnica capace di mimare, con rapide pennellate, le increspature dell’acqua, i riflessi dell’ombra, la vaghezza di ogni contorno: una gelatina pittorica tremolante e iridescente, pacatamente perentoria. Esitare su configurazioni momentanee impresse sulla retina. Concedersi al vagabondaggio tra impressioni fugaci, destinate a scomparire o cambiare. Infine, oltre alla vista, esaltare l’olfatto, l’udito, il tatto. E sollecitare, nello spettatore, sensazioni, ricordi, corrispondenze.
Monet è in questa miscela di intenzioni. Egli, come dimostrerà in maniera sublime nei cicli sulla Cattedrale di Rouen e sulle ninfee, non «salta» il reale. Con un gesto estremo, attua un processo progressivo di dispersione. Sceglie frange in cui un determinato motivo si offre con un notevole grado di monotonia e di evanescenza, per dissipare ogni residuo di significato. Proietta la dimensione concreta in una sfera fluida. Con un contro-movimento, conduce in un campo di forze, dove non esistono vicinanza e lontananza, sopra e sotto.
Occorrerà varcare le colonne d’Ercole del XX secolo per un radicale cambio di prospettiva. L’ennesimo contropiede. Vittima della logica dell’avanguardia, l’Impressionismo – la cui fulminante parabola si chiuderà nel 1886 (con l’avvento del puntinismo di Seurat e Signac) – è salutato come un transito necessario. Presto i capolavori di Manet, Monet, Degas e Renoir vengono accettati dal sistema dell’arte. Ora i Moderni sono altri. I grandi profanatori. Che decostruiscono forme (Picasso); dissolvono iconografie (Kandinskij, Klee, Mondrian); compongono drammaturgie cinetiche (Balla e Boccioni); smontano frammenti (de Chirico): assumono, risituano e risemantizzano oggetti già-fatti (Duchamp).
Eppure, il movimento di Degas e Manet è rimasto una voce di fondo di cui non si può fare a meno. Tra gli eredi dell’impressionismo permanente, David Hockney, la cui filosofia si ispira a quella di Monet. Scrutare la natura che, «senza fine», non consente obiettività. Imparare a vedere «sempre di più». Lasciare che un dettaglio entri dentro di noi. Interrogare il mistero delle cose e il variare delle stagioni. Affidarsi all’eye-fuck. La penetrazione visiva: si fissa lo sguardo su un lembo di reale, senza distrarsi. Hockney: «A un dibattito (...) mi dissero: “Ah, quindi vorresti ritornare al disegno dal vero?”. Risposi: “Più che un ritorno sarebbe un passo avanti”».