La Stampa, 5 gennaio 2024
I dissidi all’interno di Hamas
I dissidi tra correnti in seno ad Hamas rischiano di causare diverse ricadute sui destini di alcuni dei suoi leader. Come Saleh al-Arouri, numero due del movimento eliminato in un raid a Beirut assieme ad altri cinque sodali. Ma anche Yahya Sinwar, il capo politico di Gaza braccato dagli Israeliani in quanto considerato il principale responsabile dell’attacco terroristico del 7 ottobre. I falchi dello Stato ebraico, come il ministro per la Sicurezza nazionale Ben-Gvir, vorrebbero istituire per lui e i suoi complici un tribunale speciale sul modello di quello creato dopo la Shoah per Adolf Eichmann. Emettendo verdetti di condanna a morte per quelli che hanno partecipato e organizzato l’attentato terroristico del 7 ottobre. La proposta non trova il favore di molti nella compagine politica dello Stato ebraico che non vuole giustiziare Sinwar in Israele perché ne farebbe un martire, sebbene la sua testa debba comunque capitolare. Il leader politico di Gaza starebbe cercando un rifugio dorato in Qatar o in Iran, c’è addirittura chi dice che sia già fuori dalla Striscia grazie alla fuga attraverso il dedalo di tunnel a ridosso di Rafah e a un sistema di ambulanze di copertura. Se così fosse Israele lo inseguirebbe ovunque.
La “fine obbligata” di Sinwar si inserisce in un momento in cui Hamas appare animata da tre correnti il cui distanziamento progressivo è conseguenza della magnitudo dell’offensiva militare israeliana e delle sue ritorsioni nei confronti di Hamas nel mondo. La prima fazione è costituita dagli “esiliati” ovvero tutti coloro che si trovano all’estero tra Qatar, Iran e Libano, come Khaled Meshal, Ismail Haniyeh, Khaled Al-Qaddumi e Osama Hamdan. Poi c’è la fazione politica della Striscia, con Sinwar e i suoi sodali, mentre la terza è costituita dai vertici delle Brigate Al-Qassam a Gaza guidati da Mohammed Deif e dal suo vice Marwan Issa. Secondo fonti sentite da La Stampa potrebbe essere l’ala militare, in prima istanza, a vendere Sinwar al nemico prima di tutto perché è il personaggio con cui Israele è più accanita (ha la taglia più alta sulla sua testa) e perché sono i membri delle Brigate a morire per mano dell’Idf, mentre i politici si sono dati alla macchia nelle geometrie sotterranee di Gaza o fuori dalla Striscia. Il problema è che, come c’è incertezza sulle sorti di Sinwar, anche di Deif non si sa se è vivo o morto: alcuni lo davano molto malato, addirittura costretto su una sedia a rotelle. In seconda istanza potrebbero essere proprio gli esiliati a vendere Sinwar per tentare di arginare la furia israeliana, agevolandone una morte improvvisa una volta fuggito all’estero. Anche perché Sinwar, che ha a Doha il fidato consigliere Basem Naim, è ritenuto responsabile di un errore strategico ovvero quello di aver dato per certo l’intervento di Hezbollah.
In questo quadro si inserisce l’eliminazione di Saleh al-Arouri, numero due di Hamas, il quale viveva in un’enclave di Hezbollah a Beirut sud. L’ufficio in cui è stato ucciso era chiuso dal 7 ottobre e lui si è recato lì la prima volta il giorno del raid per alcuni incontri. È chiaro che chi ha agito sapeva con esattezza la sua posizione. Per quanto il raid sia frutto di un’attenta opera di intelligence dello Stato ebraico, è possibile che ad aiutare i servizi israeliani sia stato qualcuno dall’interno. Anche perché al-Arouri oltre ad essere capo di Al-Qassam in Cisgiordania, architetto della strategia dei sequestri e punto di raccordo con Hezbolalh e Iran, era una sorta di garante della tenuta dei rapporti in seno all’organizzazione. L’obiettivo da parte di Israele di tentarne uno sfaldamento potrebbe aver quindi coinciso con l’interesse di qualcuno al suo interno di eliminare i personaggi che in maniera più diretta hanno architettato e condotto il piano terroristico del 7 ottobre, ovvero Al-Arouri, Sinwar e Deif.
C’è poi una considerazione da fare sulla struttura di Hamas. Il vero vertice è il Politburo che Ismail Haniyeh guida, con 15 membri eletti da quattro “shura” regionali e che non votano a maggioranza, ma decidono tutti assieme discutendo sino a trovare un’intesa. Questa gestione verticistica collettiva però avrebbe registrato una sgranatura dal 7 ottobre 2023, col trasferimento di fatto del potere decisionale alle individualità di maggiore peso. L’obiettivo dell’attacco terroristico era un nuovo scambio di ostaggi per guadagnare consenso nella corsa per la successione ad Abu Mazen. Le cose però sono andate diversamente. Vista la situazione si è inserito nel gioco Khaled Meshal, formalmente il responsabile Diaspora ma di fatto una sorta di padre nobile di Hamas grazie alla direzione del Politburo durata 13 anni e alla sua vicinanza al fondatore del movimento, lo sceicco Ahmed Yassin. Anche lui come Haniyeh vive a Doha e, affermano alcuni osservatori, il 7 ottobre «si sarebbe sentito scavalcato da Al-Arouri e Sinwar quanto il Qatar dall’Iran».