la Repubblica, 4 gennaio 2024
Se il selfie diventa un vizio
Oramaiè accertato: esistel’inquinamento daimmagini con le sue conseguenze pratiche. La Nuova Zelanda ha invitato i turisti a smettere di scattare selfie a imitazione degli influencer nei luoghi più noti del paese; a Hallstatt in Austria invece hanno eretto una staccionata di legno per impedire la vista delle Alpi per via dell’eccessivo traffico che s’era creato in un quel punto.
Altre località note in ogni parte del globo sembrano avere l’identico problema. Non solo oggi tutti scattano fotografie con i loro smartphone, per poi postarle nei social tipo Instagram, ma per farlo sono disposti ad assembrarsi in luoghi iconici, o almeno fissati come tali non dalla pittura dei secoli passati o dalle fotografie di celebri fotografi, ma da quello che la narrazione collettiva nel web decide essere un luogo diculto o un punto di vista fondamentale dove produrre il proprio selfie da immettere nel mercato senza fine dell’immagine. Per fare questo ci si spintona, si fanno ruzzolare bambini, si rischia di creare un danno al luogo stesso, in una corsa mediatica al ci-sono-stato-anche-io o anche-noi. Pollution è la parola anglosassone che dovremo usare d’ora in poi, perché non c’è solo l’inquinamento prodotto da sostanze dannose come le polveri sottili, ma anche quello che si genera dall’eccesso d’immagini che scattiamo efacciamo circolare per il mondo. La massa di scatti oggi è vertiginosa, miliardi di miliardi, anche se poi è composta da una somma interminabile di piccoli numeri, poiché le persone a cui si possono mostrare i propri selfie in realtà non sono molte, parenti e amici, poiché non tutti sono influencer, per quanto tantissimi ambiscano ad esserlo. In un mondo in cui l’immagine è tutto, quasi una moneta di scambio, non sarà facile frenare la corsa al selfie compiuto in luoghi cult, davanti a icone del paesaggio o dell’arte. Qualcuno esasperato ci prova erigendobarriere visive invalicabili o facendo appelli alla continenza fotografica, ma sono tentativi che durano poco, perché i social provvedono a intervenire con il biasimo dei grandi numeri, che è l’ossessione di tutti in un mondo così fatto, e le barriere vengono prontamente rimosse e i divieti aboliti. L’immagine iconica è la moneta elettronica che circola con maggior velocità creando accumuli di ricchezza.
Ma non è stato questo lo scopo precipuo degli uffici turistici di tutto il mondo? Il turismo, così ben analizzato da Marco D’Eramo nel suo
Il selfie del mondo (Feltrinelli) – titolo quanto mai indovinato –, non è solo la più grande industria attuale, in concorrenza con la chimica e con gli armamenti, ma è fondata proprio sull’immagine, che non è più un succedaneo della realtà, ma realtà stessa, l’unica che conosciamo, consumiamo e adoriamo, secondo un principio che Andy Warhol ha fissato con grande preveggenza decenni fa: ciascuno ha diritto al suo quarto d’ora di notorietà. E poiché il tempo di uno scatto, per quanto in grado di degradare un luogo e di urtare qualcuno, dura solo una frazione di secondo, tutti noi abbiamo a disposizione almeno 900 autoscatti, come si chiamavano un tempo. Nel Regno della Quantità in cui viviamo da un secolo e passa si tratta di qualcosa di non irrilevante. Riusciremo a fermarci? Lo dubito.