La Stampa, 4 gennaio 2024
Zatterin ricorda la Rai per i suoi 70 anni
Apparvi la prima volta su un teleschermo nell’autunno del ’53 insieme a Cesare Zavattini. Da nove anni facevo il giornalista ed ero soddisfatto del mio lavoro di resocontista politico in vari quotidiani. Curavo alla radio una rubrica serale, intitolata Siparietto, e questa mia frequentazione dell’ambiente mi segnalò, con altri colleghi, come possibile cavia ai quattro gatti che, in un’ala dello storico palazzo di via Asiago 10, sede romana dell’EIAR durante il fascismo – declassata dopo la guerra a Centro di produzione radiofonica Rai, quando questa aveva trasferito la sua direzione generale in via delle Botteghe Oscure, di fronte al Pci – provavano e riprovavano a mettere insieme qualche trasmissione televisiva, così come stavano facendo altrettanto sparute strutture sperimentali a Torino, la prima nata, e a Milano, la seconda.Al mio debutto in tv dovevo intervistare per Teleclub il padre e mentore del neorealismo cinematografico in un angolo – sommariamente arredato a salottino letterario con due poltroncine, un tavolo ovale e uno sfondo di libri finti – nello studio P1: un ambiente piuttosto squallido di 12 metri per 17, ricavato con teloni e ponteggi dall’auditorio della ex Casa del soldato, dove venivano trasmessi durante la guerra Radio Fante e gli altri programmi radiofonici destinati alle forze armate, ai quali partecipavano gruppi di militari festanti per tanto privilegio. Il «P» indicava opportunamente che si trattava di una sistemazione provvisoria e l’«1» significava che era il primo, e per qualche tempo anche l’unico, nella capitale.Cognome contro cognomeCol senno di poi, quell’accoppiata di improvvisati discettatori televisivi, a ripensarci, fu per me come un presagio del tormentone provocato dalla rassomiglianza dei nostri cognomi, che mi perseguiterà nei decenni successivi: l’esser interpellato e presentato spesso come Zavattini o Zavattin, da chi mi incontrava in carne ed ossa dopo avermi visto qualche volta sul video. Fu un tipo di equivoco diffuso in ogni tempo tra tanti telespettatori, portati a combinare nella testa immagini e cognomi solo per una assonanza o una affine attività professionale o lo stesso colore dei capelli o l’uguale abbondanza del naso o del mento o altre apparenti analogie, compresa quella minima del comune apparire sul teleschermo, grazie a cui a capitava magari che qualche sempliciotto mi domandasse con candida cortesia: «Lei è quello che canta in tv?»; col seguito di tante scuse, a chiarimento avvenuto, e una malcelata delusione per aver incontrato in carne ed ossa solo uno che dava notizie.Seduto di fronte a Zavattini, durante quella prima ripresa non potei guardarmi nemmeno di sfuggita sul piccolo schermo, perché l’unico monitor a portata d’occhio era posto in favore dell’assistente di studio, che di fronte a noi, seguendo in cuffia le disposizioni del regista, doveva guidare a gesti il comportamento del personale tecnico e degli ospiti; però mi vide nel televisore di casa, insieme con tutta la famiglia riunita per il lieto evento, il mio primogenito di tre anni, che scoppiò in lacrime puntando disperatamente il dito verso lo schermo: «E adesso, come farà il mio papà a uscire fuori da quello?». Fu l’esordio melodrammatico d’un telespettatore della prima generazione svezzata con la tv, a cui seguì per qualche tempo la inevitabile pretesa che, girando la manopola, il papà assente comparisse sul video, e dalla presunzione della mamma di fargli assimilare con impossibili parabole la differenza tra presenza reale e presenza virtuale, ovvero di spiegargli la funzione delle onde elettromagnetiche e del tubo catodico nell’apparizione e nella sparizione di papà dentro lo scatolone del salotto.Tema dell’intervista con Zavattini era ovviamente il neorealismo. Lo aveva deciso la dottoressa Maria Grazia Puglisi, curatrice di Teleclub, attenta ad informarci, dopo essersi presentata come tale: «Questa è una trasmissione culturale, sia ben chiaro». Era una gradevole signora dal taglio «intellettuale chic», cresciuta a Radio Roma e mandata in avanscoperta dalle parti della tv, e non capii quanto questa missione la lusingasse o quanto invece la considerasse una fastidiosa corvée in lande abitate solo da leoni. Ebbi comunque l’impressione che, abituata a lavorare davanti ad un microfono, le immagini aggiunte alle parole le accettasse come una contaminazione, che toglieva severità o aggiungeva frivolezza ai concetti di chi intendeva parlare seriamente; perciò il precisare sempre che di cultura si trattava, e non d’altro pattume assimilabile allo spettacolo o, peggio, all’avanspettacolo, generi di consumo che spesso precedevano o seguivano il suo prodotto, doveva sembrarle una doverosa tutela della propria immagine professionale e una rassicurazione per gli ospiti meritevoli di riguardo.Tanto non ci guarda nessunoZavattini ed io eravamo entrambi piuttosto impacciati – e ce lo dicemmo – dal doverci esprimere praticamente di fronte a nessuno, benché ci fosse stato raccomandato di non guardare le telecamere, anzi di far finta che non ci fossero e di immaginarci a colloquio nel salotto di casa nostra; un disagio insolito, che nell’ambiente era citato tra le prime cause del cosiddetto «telepanico», di cui si favoleggiava come d’una drammatica incognita sul percorso d’ogni novizio. E lui, forse preso più di me dall’insolito ruolo, dopo aver premesso che nel salotto di casa sua avrebbe parlato più volentieri di altre cose, se n’era uscito dichiarando ad alta voce: «Per fortuna che tranne questi – e indicò col dito i quattro presenti nello studio – non ci vede nessuno, così evitiamo di sputtanarci». Forse significava un incoraggiamento a me e a sè stesso, ma non lasciò affatto indifferente l’attenta Puglisi, che senza nascondere il fastidio per l’espressione politically incorrect usata dallo scrittore e per la svalutazione implicita della sua opera, volle puntigliosamente precisare che assolutamente no, «un certo numero di persone» ci avrebbe seguito «da qualche parte» nella capitale. «Sarà» borbottò Zavattini. «Lei riuscirà certamente a contarle. Io seguito a considerarmi, come si può dire?, un conversatore in incognito».Al «via!» dell’assistente, con una mano che tagliò come una daga le nostre titubanze, intervistatore e intervistato ci puntammo gli occhi negli occhi, quasi per sfuggire all’assurdo di cui ci sentivamo protagonisti, e, liquidato in due battute il neorealismo, di cui Zavattini sentenziò che era già stato detto tutto e lui era abbastanza stufo di parlarne, ci incartammo senza volerlo in un mezzo battibecco – disapprovato di fronte a noi dalla signora Puglisi, invitante alla moderazione con un desolato agitare delle mani e del capo – circa la diversa natura dello «specifico filmico» rispetto allo «specifico televisivo», che era allora una questione di qualche attualità, dibattuta da cinefili e studiosi di mass media, in maggioranza propensi a riconoscere il primo nel «montaggio», il secondo nella «ripresa diretta».Lo «specifico televisivo»Di questa distinzione però non sembrava persuaso Zavattini, benché non riuscisse a esprimerne un’altra più convincente, che forse aveva in testa, col risultato di avvolgersi in quel suo parlare svelto e appassionato, a momenti balbettato e confuso, perdendo il filo dietro una similitudine che si affaticava a centrare, benché le girasse intorno con furia di sinonimi, col risultato di accalorarsi e un poco incarognirsi e spesso interrompere il periodo a metà, stringerti un braccio e concludere: «Ma già avrai capito tutto...», mentre tu, come gran parte dei suoi interlocutori, a questo punto assentivi solo per rispetto del suo conclamato carisma. Forse alla fine Zavattini avrebbe di certo infilzata la sua bella tesi, che stava dipanandosi sulla trama che una tv, ove fosse stata liberamente usata, sarebbe diventata una naturale fonte di neorealismo, se lo stop impostoci dall’assistente con un perentorio allargare delle braccia, che mi parve la giusta punizione dell’esser noi finiti fuori tema, non ci avesse bloccati per scadenza del tempo prefissato, lasciandoci attoniti e persuasi d’aver detto solo delle confuse banalità, ma fortunatamente «sputtanati» solo davanti a pochi intimi.Sperimentammo così che all’ordinario telepanico da esordienti poteva aggiungersi durante una trasmissione l’incubo di dover concludere il discorso in un tempo tassativamente prestabilito. Per noi la scaletta aveva previsto dieci minuti, e dieci dovevano essere, scanditi, minuto dopo minuto, dalle dita del signore in camice bianco e cuffia sugli orecchi, con l’effetto primario di angosciarci e di accavallarci le idee, già abbastanza intrigate dalla novità.Telepanico e censuraL’interruzione brusca lasciò Zavattini indispettito. Salutò in fretta la dottoressa Puglisi evitandone i complimenti e i ringraziamenti compìti, e mi bofonchiò nell’uscire che forse il vero specifico televisivo era la possibilità di staccare la spina a chi parlava, senza fargli nemmeno completare il discorso, per la ragione, o col pretesto, che il tempo a disposizione era scaduto. «La censura» scandì col lampo d’una intuizione, «ecco, la censura in tempo reale. Pensaci bene. Possono tapparti la bocca schiacciando un tasto, in un lampo, senza darti il tempo di obiettare». Concluse che nel cinema occorrevano le forbici, nei giornali dei tratti di penna, qui bastava un tocco, solo un piccolo tocco con un dito su un bottone, accampando il doveroso rispetto dei tempi o qualche inconveniente tecnico. Che cos’altro poteva essere più specificamente televisivo della censura in diretta?La censura di quei tempi, manovrata in varie forme dalla presidenza del consiglio, prima sui copioni, poi sul prodotto finito, era una croce del cinema, specie di quello neorealista, e Zavattini ne era stato più volte vittima e sempre severo contestatore. Forse doveva naturalmente accadere che, alla fine, anche l’esordio televisivo gli apparisse come una violenza intellettuale e la tv come lo strumento nuovo d’una persecuzione antica contro la libertà di espressione.L’esordio di ModugnoIl nostro posto lasciato libero in studio fu occupato, girata la telecamera verso l’angolo opposto del P1, qui allestito con una sedia e un comune fondale di mare e spiaggia, da un giovane cantautore pugliese, che doveva raccontare sulle note della sua chitarra la commovente morte d’un pesce spada fiocinato dai pescatori. Anche per lui era la prima volta in tv, e mentre attendevamo che la trasmissione si iniziasse, ci aveva domandato se fossimo emozionati. Lui lo era tanto, ci confessò, e lo si capiva dalla voglia di parlare che aveva, di dirci che molti lo credevano siciliano, mentre era nato a Polignano a mare, in Puglia, e le sue canzoni erano concepite semmai in dialetto salentino; aveva frequentato il Centro sperimentale di cinematografia e fatto particine in alcuni film. Zavattini lo guardava con qualche sospetto, pensando forse che alla fine, come tanti suoi occasionali interlocutori, gli avrebbe chiesto una raccomandazione per un produttore o per un regista, ma paternamente disponibile a incoraggiarlo appena il ragazzo ci aveva confidato di sperare solo in una carriera di cantante. Ad ogni buon conto io gli dissi che non c’era niente di che emozionarsi, pensasse solo a cantare bene, e Zavattini gli anticipò come incoraggiamento quel «tanto non ci vede nessuno» con cui avrebbe successivamente stuzzicato anche la dottoressa Puglisi. Qualche anno dopo, scomparsi i turbamenti del debutto, la tv spalancherà il mondo a Domenico Modugno facendolo volare «nel blu dipinto di blu».