il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2024
La legge, la parodia e D’Annunzio k.o.
Che ha da vedere il diritto con la parodia, genere letterario tra i più controversi e ardui da definire? E perché le norme giuridiche si spingono, in loro vincolante perentorietà, fino a questo estremo “altrove”, a questo rifugio dello spirito, che sembra appartenere soltanto al giuoco e al riso?
(…) Calza nel nostro discorso il richiamo della controversia giudiziaria D’Annunzio-Scarpetta, abilmente presentata – al cosiddetto “grande pubblico” – nel film del 2021 di Mario Martone Qui rido io. Noto di passata che D’Annunzio, per il raffinato uso di parole arcaiche, il tessuto lirico e metrico, il voluttuoso gusto di sensazioni, e anche la riscoperta di passioni e riti ancestrali, offriva materia al gusto parodistico così nei versi come nei drammi di teatro. Ecco la lite giudiziaria. Fu mossa accusa all’attore comico Eduardo Scarpetta (in arte “Felice Sciosciammocca”) di «avere in Napoli nel dicembre 1904 abusivamente rappresentato, a scopo di lucro, sulle scene del regio teatro Mercadante, la commedia Il figlio di Jorio che riproduceva, sotto pretesto di farne la parodia, la tragedia pastorale La figlia di Jorio di Gabriele D’Annunzio, sulla quale perdurava il diritto esclusivo di autore» (leggo la lucida frase nella sentenza resa dal Tribunale penale di Napoli il 27 maggio 1908). «Lo Scarpetta avrebbe violato norme del testo unico 19 settembre 1882 sui diritti spettanti agli autori delle opere d’ingegno». Voluminose le memorie defensionali; ben tre le perizie favorevoli allo Scarpetta che anche godeva del consenso pubblico. Benedetto Croce si offerse di difendere l’attore comico e scelse compagno nella perizia Giorgio Arcoleo, titolare della cattedra di diritto costituzionale nell’Università partenopea. La perizia fu depositata in Tribunale il 27 ottobre 1907, e merita, per prestigio degli autori e profondità di contenuto, la nostra attenzione. Arcoleo e Croce nettamente distinguono il contraffare e il parodiare. Se l’uno, «dando luogo ad una vera “concorrenza sleale”, consiste nel mutare…, in maggiore o minor misura, lingua e particolari, serbando lo spirito dell’opera», l’altro «ne cangia sempre lo spirito animatore: di tragico in comico, di serio in ridicolo, di triste in giocondo». E così, mentre La figlia di Jorio è tragedia pastorale, violenta per selvagge passioni, paure misteriose, contrasti brutali, l’opera dello Scarpetta tutto «trasforma e deforma in una serie volgare di equivoci, di sorprese, di pettegolezzi, nei quali prevale il trivio, che vuol essere comico sempre, con l’unico intendimento di destare riso, non pietà». Le novità linguistiche e le finezze rappresentative di D’Annunzio si convertono in fonte di giuoco e di riso.
Accolse il Tribunale (presidente Morelli, estensore Giaquinto) le tesi difensive di Arcoleo e Croce, sicché la sentenza fu così “massimata” nel periodico giuridico La legge del 16 febbraio 1909: «La parodia, intesa come travestimento burlesco di opera seria, è opera autonoma, indipendente e lecita che non può essere ragione di punibilità sotto forma di contraffazione», «non è vera imitazione.., bensì sotto forma identica (e la maggiore identità è massimo pregio) rivelasi antitesi sostanziale e profonda, individualità novella». (…) Narra lo Scarpetta, in suo libro di memorie, di aver reso visita a Gabriele D’Annunzio nell’agosto del 1904, presentandogli l’opera parodiante: «Vengo a rendere omaggio al primo poeta d’Italia, e colgo l’occasione per presentargli anche il mio piccolo Figlio di Jorio», e di essere ripartito da Marina di Pisa coll’amichevole consenso dell’autore parodiato (e poi mancante di parola e iniziatore di giudizio penale).
L’episodio torna a dimostrare l’accennata ambivalenza, o arduo dialogo, di parodiante e parodiato; il quale non si svolge fra persone, ma piuttosto fra testo e anti-testo. Il parodiante rende omaggio all’opera originale, le si fa accanto e vicino, e insieme l’allontana da sé, e converte in riso la cupa tragedia e le selvagge passioni ed i riti ancestrali dell’opera dannunziana. Si spiega così che uno studioso italiano, Massimo Bonafin, abbia raccolto pagine teoriche, nostre e straniere, sotto il titolo di Dialettiche della parodia: dialettiche, che esprimono insieme vicinanza e lontananza, distruzione e costruzione. Mi piace qui di ripetere un limpido passo della prefazione «la parodia mette in scena due voci, due istanze contrapposte: il discorso parodiato, con le sue caratteristiche e la sua peculiare concezione del mondo, e il discorso parodiante che lo contrappunta, denunciandone i limiti e introducendo, per dir così, il correttivo del riso e di un’altra visione del mondo; in omaggio al principio secondo cui non c’è innovazione senza imitazione, la parodia prima pone il modello, poi l’insoddisfazione critica che porta a negarlo in tutto o in parte».
E qui, in questo convegno di giuristi, possiamo ben parlare di dialettica del diritto, che, da un lato, protegge l’opera parodiata e, dall’altro, accorda, secondo i principi costituzionali, piena libertà di espressione e di creazione artistica. Codesta dialettica insegna, ancora una volta, che la libertà non è una condizione naturale e astratta dell’uomo, ma una facoltà storicamente determinata, legata alla contingenza di una situazione, che le sta di fronte ed esige una presa di posizione, sia essa di muta ammirazione, di imitazione, o di travestimento ludico e scherzoso. Ed anche dimostra la potenza distruttiva e creativa del riso, il quale – si esprima in ironia o satira o parodia – reca sempre in sé una profonda serietà dell’intelligenza, un libero e scanzonato movimento di pensiero e fantasia.
Certo, bisogna sempre distinguere, e non scambiare Ultimo tango a Zagarolo come legittima parodia di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Ma quando, come nella scarna, sublime, metafisica arte di Totò, il giuoco non è volgare, né triviale il linguaggio, allora la pienezza del riso indica acutezza critica e gusto innovatore. Un grande filosofo spagnolo, Ortega y Gasset, nelle sue Meditaciones del Quijote, enuncia due proposizioni, che il nostro discorso non può lasciare in ombra: da un lato, che il passaggio «dal voler essere al credere di essere segna la distanza fra il tragico e il comico»; dall’altro, che «la commedia è il genere letterario dei partiti conservatori». All’acutezza della prima, dove ben si coglie che Don Chisciotte crede già di essere ciò che l’eroe moderno vuole essere, e perciò cade nel comico e nel riso; si accompagna la seconda, in cui osiamo correggere che la commedia e la parodia sono invece i generi letterari dei partiti “progressisti” o “rivoluzionari”, poiché smascherano l’ideale e ne rivelano il carattere comicamente utopico. Il riso – come ben avvertì Henri Bergson nello splendido saggio del 1900 – esprime vita o movimento di contro alla rigidità di qualsiasi meccanismo, letterario o sociale o politico. L’altrove, che figura nel titolo del nostro convegno, è un semplice avverbio di luogo, al quale fu attribuito da chi oggi vi parla, e fin da un discorso accademico del 2004, il significato d’un riparo, d’un rifugio di minoranze culturali, d’un trarsi fuori dalla banalità dell’epoca. Su di esso più volte egli è tornato, ed anche nella prolusione al convegno del 2022, affidatagli dalla generosa amicizia di Antonio Palma. La parodia è un “altrove” raffinato, dove l’estrema serietà e lo scrupolo critico si nascondono dietro al sorriso. Questo è l’“altrove”di bellezza che il diritto può offrire al nostro disincanto e al vivere dolente dei nostri tempi.