la Repubblica, 4 gennaio 2024
Vincere il pulitzer con una storia di 25 anni fa
«Quando sei giovane speri tutto il tempo che ti accada qualcosa, convinto che la vita sia altrove. Poi succede qualcosa davvero: e passi il resto della vita a cercare di dargli un senso». Hua Hsu, classe 1977, giornalista del New Yorker di origini taiwanese e professore di letteratura al prestigioso Bard College di New York, ha impiegato 25 anni a fare i conti con la morte violenta dell’amico Ken Ishida: ragazzo nippo-americano conosciuto nel campus di Berkeley, assassinato nel 1998 durante una rapina andata male.
Iniziò a scriverne il giorno dopo, continuando ad affrontare quell’episodio cruciale più volte fino a farne un memoir intitolato Stay True recentemente premiato col Pulitzer e ora pubblicato in Italia da NR. Appassionante riflessione su come la memoria trasforma l’assenza e straordinario affresco dell’America anni ‘90 attraverso gli occhi di due ragazzi di origini asiatiche.
In principio fu un diario...
«Ho scritto per anni senza mai pensare a un libro. Era un esercizio terapeutico, un modo per fissare il meglio di un’amicizia importante. Crescendo, ho capito che c’era qualcosa di più in quel peculiare periodo della mia vita: dovevo tornarci. Infatti il libro contiene molte pagine di diario rivisitate per meglio capire come quell’epoca e quell’evento sono confluite nella mia storia personale. Perché di sicuro è stata la morte di Ken a forgiare il mio rapporto con la scrittura: disegnando la mia carriera successiva. Quell’evento è il primo tassello di ciò che sono diventato».
Lo dice anche la motivazione del Pulitzer: “Racconto di formazione, elegante e toccante, dove si affronta il modo in cui amicizie giovanili e violenza casuale possono alterare permanentemente la logica della narrazione personale”. Si riconosce?
«Non avrei mai immaginato che una storia così intima potesse significare qualcosa per altri. È stata una sorpresa e un’emozione scoprire che tanti vi hanno trovato connessioni con le loro esperienze personali. Fare i conti coi traumi del passato è un processo lento e difficile: ma non così unico come credevo. Di sicuro è difficile “rimanere veri”, che poi è il concetto scelto come titolo. Gran parte del libro, parla semmai di quanto si può essere perplessi della propria stessa memoria. Che sia arrivato a vincere addirittura il Pulitzer è stato uno choc».
Memoria e realtà non sono la stessa cosa?
«No. Quando ero giovane “essere veri”, provare ad essere fedeli a se stessi, aveva un senso assoluto. E infatti negli anni di cui scrivo avevo idee definitive e passioni intransigenti. Fu proprio Ken, più aperto e in questo profondamente diverso da me, a mettere in crisi le mie certezze, costringendomi ad essere meno snob: ad esempio sulla musica. Io ascoltavo solo band indie di nicchia, lui amava la musica più mainstream dei Pearl Jam. Quelle aperture hanno portato a molto altro ma ci ho messo anni a capirlo. E infatti il libro è più sulla memoria che diventiamo nel tempo, che un racconto storico in senso stretto. Riconciliare memoria e realtà è una sfida. Non ho scritto un libro veritiero: ma una versione della mia verità di quando ero ragazzo».
Scrivere della morte di Ken è stata praticamente la missione della sua vita. E ora che il libro è pubblicato, cosa farà?
«Me lo chiedo anche io. La morte di Ken mi ha definito, facendo nascere in me quell’esigenza di scrivere poi trasformata in carriera. Senza quell’evento non avrei trovato la mia vita abbastanza interessante da scriverne, sarei un’altra persona. In 20 anni, Ken è diventato parte di me: eppure se le cose fossero andate diversamente non so nemmeno se saremmo ancora amici. Il bello di ogni relazione umana è che c’è sempre un domani, i rapporti evolvono, crescono, si spezzano ma si continua ad accumulare memoria ed esperienza. Al contrario la morte ti costringe a fossilizzarti su un sentimento definito e finale. Così l’intensità della nostra amicizia è diventata più intensa nella memoria».
Lui avrebbe apprezzato?
«Mi piace pensare che avrebbe trovato buffa l’idea che tanti anni dopo ho finito per prendere le sue idee di allora più sul serio delle mie. A 46 anni, oggi, somiglio sicuramente più al lui di allora che al ragazzo che ero io. E se sono diventato un critico musicale: beh, lo devo in buona parte proprio ai suoi gusti che all’epoca non comprendevo...».
All’epoca quell’omicidio efferato non fu considerato un crimine d’odio razziale. Oggi la sensibilità è cambiata: lo sarebbe?
«Continuo a pensare che fu un evento casuale: i suoi assassini cercavano uno studente vulnerabile da rapinare e lui lo era. Di sicuro nel 1998 non volevo pensare esistesse odio razziale: avrebbe sottolineato una diversità che non volevo vedere. Ma oggi di fronte a un crimine del genere ci sarebbero interrogativi diversi. Agli assassini verrebbe chiesto cosa pensano degli asiatici, perché prendere di mira un campus dove gli asiatici erano il 30 per cento. Se fu crimine d’odio è una domanda cui è impossibile rispondere oggi, ma certo un quarto di secolo dopo il dubbio è plausibile».
Tecnologia, musica, moda: il suo libro è un tuffo negli anni Novanta. Com’è stato rivisitare quel periodo?
«Liberatorio: volevo ricostruire cosa volesse dire avere 18 anni nel 1995 e mi sono basato sulla mia sola memoria, senza fare particolari ricerche. Mentre scrivevo ho però ascoltato ossessivamente la musica dell’epoca. Il libro ha praticamente una sua colonna sonora, parte del racconto, perché stuzzica la memoria di ciascuno. Il passato da lontano appare sempre più intrigante ma una cosa ho riscoperto: c’era il tempo di annoiarsi».
Il libro
Stay True. Tracce di un’amicizia di Hua Hsu (NR, traduzione di Sara Marzullo, pagg. 200, euro 19)