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 2024  gennaio 02 Martedì calendario

Le critiche di Mazzola e dei tifosi-hater. Nelle lettere a Pozzo la storia dell’Italia


La lettera del 28 maggio 1948 viene da Roma. «Senta un po’ lei, signor commendator Vittorio Pozzo, sì, proprio lei, il simpatizzante del Torino e in special modo di Gabetto. Noi ricordiamo i campionati del mondo che ha fatto vincere all’Italia, ma in queste partite internazionali del dopoguerra lei non è piaciuto a nessuno. Ha qualche questione personale con Gabetto? Gli offre qualche fiasco di vino? Non si concepisce l’esclusione dalla nazionale di un giocatore come Amadei».
Il tifoso giallorosso che si firma, tale Enrico Gagliardo, è inviperito. Che il romanista Amedeo Amadei – un attaccante fortissimo, detto il «fornaretto di Frascati» perché la sua famiglia faceva il pane ai Castelli – non giochi mai in azzurro perché gli è preferito il leggendario granata Gabetto, a lui proprio non va giù. «Ma non mi faccia ridere, lei è un fissato», insiste. Poi conclude: «Guardi che Amadei non teme confronti».
Ex partigiano
La lettera è solo una tra le migliaia di documenti che stanno all’«Archivio Vittorio Pozzo», quello donato nel 2009 all’Archivio di Stato di Torino dai figli dell’allenatore che guidò gli azzurri dal 1929 al 1948 ottenendo un palmarès ineguagliato nella storia del pallone. Parliamo dei mondiali 1934 e 1938, dei Giochi del 1936 e delle coppe Internazionali (gli Europei di allora) del 1930 e del 1935. Proprio da quelle carte, in parte pubblicate a luglio da La Lettura, era emerso il sorprendente ruolo del c.t. nella Resistenza lontano dal suo pur certo passato di fascista. In sintesi, uno «007» con la «rete Franchi» del liberale Edgardo Sogno, poi il sostegno ai prigionieri alleati e agli ebrei in fuga verso la Svizzera e in prima linea nella liberazione di Torino.
Gli hater
Adesso però il colossale archivio, nuovamente setacciato, restituisce altro, uno spaccato dell’Italia sportiva tra gli anni Trenta e Cinquanta tratteggiato dalle lettere al Commendatore, come tutti all’epoca chiamavano Pozzo.
Partiamo dagli hater, non diversi da quelli odierni: oggi ci sono gli insulti sui social, allora quelli con carta e penna. È il 1944: sebbene ci fosse altro a cui pensare, dei «tifosi sfollati lombardi nel Torinese» gli dicono che «questa squadra lombarda – il c.t. la dirigeva in un torneo tra rappresentative regionali – è una porcheria». Gli dettano la formazione e lo minacciano: «Se non l’accetterete invaderemo il campo».
Tra Torino e Lazio
Altre lettere: ecco quel che gli invia l’immenso Valentino Mazzola, poi perito con tutti gli altri granata a Superga. Il capitano è proprio piccato per una critica che Pozzo gli ha indirizzato sulla Stampa, il quotidiano dove il c.t. scriveva da sempre come prima firma del calcio. Valentino, che pure era uno dei «cocchi» del Commendatore, allarga le braccia: ma «possibile che lei non veda che io sono l’ultimo a morire malgrado i miei acciacchi?». Sono quattro pagine proprio arrabbiate: «Lei è cieco, non vede i miei passaggi da gol, mica vale correre sempre per vincere una partita...».
Ma restiamo a Torino, anno 1955. Strepitoso ciò che Mario Gromo, coltissimo segretario di redazione della Stampa, invia al presidente della Lazio Costantino Tessarolo. I biancazzurri vorrebbero Pozzo per un incarico dirigenziale. Gli consentirebbero di continuare a scrivere e sondano intanto Alfredo Frassati, il senatore a vita fondatore del giornale. Questi, chissà quanto interessato, gira la pratica all’inflessibile direttore Giulio De Benedetti, colosso del giornalismo italiano. La risposta di Gromo al laziale è tutta sabauda: «Ho parlato con De Benedetti, spiacente di dirle che La Stampa non può rinunciare a Pozzo», «l’incarico da voi proposto toglierebbe quell’indipendenza critico-tecnica tanto apprezzata da noi e dai nostri lettori».
Le raccomandazioni
Anni Cinquanta: innumerevoli le lettere dai «suoi» azzurri. I più gli chiedono favori, anzi panchine. Eloquente Gino Colaussi, mondiale 1938: allena l’Olbia ma non ne può più di stare in Sardegna e gli chiede «un appoggio» al Colleferro. «Sento che lei mi aiuterà...». Torniamo al 1939. Scrive il santone ungherese Alfred Schaffer: «Herr Vittorio non vorrei infastidirti – è la sua supplica – ma ti prego: per la guerra ho lasciato la Germania, ora sono a Budapest. Non ho mai chiesto nulla, ora debbo: c’è qualcosa per me in Italia?». L’anno dopo è alla Roma e vince lo scudetto 1941-1942.