la Repubblica, 2 gennaio 2024
Intervista a Sergio Castellitto
Sergio Castellitto, come ha trascorso Capodanno?
«In famiglia, con qualche amico. Si cade ogni anno nella trappola di affidare a questo giorno bilanci, propositi. Il segreto è farlo passare come un giorno qualunque».
L’11 gennaio esce “Enea”, diretto da suo figlio Pietro (prodotto da Apartment di Lorenzo Mieli e Frenesy di Luca Guadagnino, distribuisce Vision, ndr). Lei interpreta il padre del protagonista. Emozionato?
«Molto. Vedo anche quanto lo siano Pietro, i suoi fratelli, sua madre. La viviamo come un’epifania».
Che significa per lei questo film?
«Il primo con mio figlio, che mi ha chiamato per un bellissimo ruolo».
L’ha chiamata all’una di notte e lei lo ha mandato a quel paese.
«Perché dormo presto. Ma era un’imprecazione contenta. Pietro ha messo in campo nel film, non in modo autobiografico, la famiglia.
È un atto di coraggio, non di vanità.
È come leggere la propria vita e farla diventare cinema».
Se non le avesse offerto il ruolo?
«Non mi sarei offeso. Abbiamo girato senza complicazione psicanalitiche.
Con lo spirito di obbedienza e di disobbedienza che ho in ogni set».
Al suo personaggio di padre, che cela un mistero, si vuole bene.
«Perché è un uomo perbene, disarticolato, vive un disagio comune a molti. Da psicanalista si occupa del disagio degli altri, scopre di non aver affrontato il suo».
In cosa ci si ritrova?
«Nello spirito tolleranza verso gli altri. Anche se mi sono arrabbiato tante volte, nella vita. La disponibilità all’ascolto ti regala incontri magici con gli altri e con te stesso».
Pietro ha detto che la rabbia è il suo grande motore.
«La rabbia è un diritto, un giovane attore deve averla, ti fa dissotterrare le frustrazioni. Una benzina necessaria».
Cosa la fa arrabbiare?
«La generale ipocrisia. Il nostro è un Paese in cui le persone mediamente si detestano. Alla mia età lo sforzo è trovare un punto di armonia con gli altri, mantenendo le proprie idee, disistime o ammirazioni. C’è già tanta guerra nel mondo, nella nostra società in apparenza pacifica assistiamo di continuo ai conflitti da talk show. La rabbia è come il colesterolo, va coltivata quella positiva, che genera anche armonia».
Il discorso di Mattarella?
«Straordinario, pieno di passione e di una preoccupazione, però luminosa, che me lo ha fatto senire più alto degli anni passati. Mi hanno colpito le sue parole sulla guerra, sulle nuove tecnologie, commosso quelle sui ragazzi. L’ho ascoltato in un silenzio vicino al raccoglimento».
Della classe politica cosa pensa?
«La politica è necessaria e terribile allo stesso modo, esiste più politica in un quadro di Mirò che in tanti talk tv.
Il mio compito è cercare di risolvere conflitti attraverso gli strumenti dell’artista. Adesso attraverso l’esperienza del Centro sperimentale».
Una polemica ha preceduto la sua nomina a presidente del CSC, scelta che ha pacificato gli animi.
«Se ci fosse stata la minima polemica sulla mia nomina avrei rifiutato. Sono un costruttore, non un distruttore.
Ho fatto patti chiari all’inizio. Nella mia vita non sono mai appartenuto a nessuno, ho chiarito che se mi sichiamava era per competenza, non per appartenenza».
Con gli studenti?
«Ho subito fatto un’assemblea. Al Centro sperimentale i lingotti d’oro sono loro e la straordinaria Cineteca.
La prima iniziativa è la “Diaspora degli artisti in guerra”, tre giorni di incontri con registi delle aree di guerra nel mondo. Poi il CSC è un luogo di grandi eccellenze, il mio compito è agitare, rintracciare, dissotterrare il talento degli altri».
A pensare a lei è stato Pupi Avati.
«Sì, e ho detto no. Mai pensato di diventare un manager. Poi ho capito che ci sono esperti per la burocrazia, io potevo occuparmi della bellezza di quel luogo».
Se la invitano ad Atreju ci va?
«No, ma non troverei neanche così grave andarci, così come alla Festa dell’Unità o altrove. È banale far diventare scelta politica un rifiuto o un’accettazione».
Quale notizia la colpisce di più in questi giorni?
«L’onda di giovani che fanno volontariato. Un bel segno, una splendida ideologia, questo mettersi al servizio, aprirsi all’ascolto. Purché le cose non vengano pubblicizzate in modo strumentale: ognuno di noi compia dei gesti e li tenga per sé».
Ha girato “Giulietta è Romeo” di Giovanni Veronesi. Dal titolo si evince che tratta dell’identità di genere. Un tema politico.
«Un film delizioso. Passaggi di calda malinconia e bella cattiveria dacommedia all’italiana. L’identità di genere è uno dei temi centrali. Sono cresciuto in un gineceo di sorelle e madri, mi è naturale il rapporto con il mondo femminile, come con la libertà di ognuno di fare ciò che sente giusto per la propria vita».
La crisi della commedia pura?
«Distinguiamo il film comico, esercizio ginnico, dalla commedia, che è pura drammaturgia. In questo senso il film di Pietro è una straordinaria commedia umana».
In tutto ciò Margaret Mazzantini?
«Margaret è sempre vigile, in maniera laterale. Ma conta molto più la sua di altre opinioni in casa nostra. Tutti abbiamo diritto di parola, ma la sintesi spetta a lei».
Nel film c’è anche suo figlio Cesare.
«Il mio eroe. Ha molti difetti, carattere irruento, e una profondità che è un tesoro. L’importante è che le malinconie non diventino depressioni e le tristezze producano immaginazione».
L’immagine più forte, che le resta, di “Enea”?
«Il finale, con me e Chiara Noschese: ha fatto un personaggio stupendo nel quale, trasfigurata, c’era Margaret».
La generazione dei genitori sopravvive e vola, quella dei giovani è sconfitta.
«La lezione del film è nella differenza fra adulti perbene ma inadeguati alla felicità e giovani “per male” che combattono per la propria felicità e rivendicano il diritto al romanticismo».
Un proposito per il 2024?
«Continuare a lavorare a cose che mi facciano sentire il mestiere ancora necessario».