Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  gennaio 02 Martedì calendario

Biografia di Thomas Stearns Eliot

Nel 1929 Thomas Stearns Eliot è già l’intellettuale più rilevante del proprio tempo. Sette anni prima ha pubblicato The Waste Land, il poemetto che ha cambiato per sempre il corso della poesia del Novecento; dal 1925 è il direttore editoriale della Faber and Gwayer (poi Faber and Faber). Tra le sue scoperte, va citato, almeno, il giovanissimo W.H. Auden, di cui Eliot pubblica i Poems: il ragazzo ha ventitré anni. Il fiuto lirico di Eliot, d’altronde, è implacabile: con la sua casa editrice pubblica i giovani più promettenti della poesia inglese, da Stephen Spender a Ted Hughes. In una serie di saggi con il frac, scritti in una prosa laccata, d’acciaio, invece, riscopre autori diversamente dimenticati: Thomas Middleton, John Bramhall, John Davies, Matthew Arnold. Il saggio su Dante terminato proprio nel 1929 definisce la poetica di Eliot. La Divina Commedia sarà per Eliot il modello poetico ed esistenziale dei Quattro quartetti, il suo capolavoro. Insomma: con prodigiosa energia Eliot si piazza al centro del canone culturale europeo. Sceglie cosa bisogna leggere e perché; si erge a maestro. Non ha più impedimenti, tra l’altro. Nel 1927 si converte alla Chiesa d’Inghilterra e accompagna la moglie - la fatua, fascinosa, isterica Vivienne Haigh-Wood - in una clinica per disturbi nervosi, a Ginevra. Quando comincia a occuparsi di politica internazionale, si è già dichiarato «classico in letteratura, monarchico in politica e anglocattolico in religione». In una poesia ambrata di sarcasmo, un suo estroso pupillo, George Barker, poeta magnetico, ubriacone, poligrafo, che ha dato al mondo sedici figli da un paio di mogli e una manciata di amanti, descrive Eliot come «un uomo gotico e cortese» dal viso «severo, imperiale» nella cui stanza «le visioni/ imputridiscono, sibilando».
Nel luglio del 1929, sul Criterion, la rivista da lui ideata e diretta, Eliot pubblica un saggio spesso citato a casaccio, a causa della sua dichiarazione estrapolata dal contesto «di nutrire una preferenza per il fascismo». Il saggio, ora tradotto integralmente da Fabrizia Sabbatini per PAN, la newsletter di Pangea (vi si accede, gratuitamente, da qui: www.pangea.news/pan), s’intitola Mr. Barnes and Mr. Rowse ed è piuttosto una letale anamnesi di fascismo e comunismo. A dire di Eliot, fascismo e comunismo sono «idee perfettamente convenzionali», legate da «una familiare somiglianza», che non si possono «considerare come idee nuove e tanto meno rivoluzionarie». Che vuol dire?
Torniamo ai principi primi, cioè al titolo del saggio. Eliot replica al pensiero politico espresso da due collaboratori del Criterion. Mr. Barnes sta per James Strachey Barnes: fascista, amico di Mussolini, autore di The Universal Aspect of Fascism, direttore, a Losanna, del «Centre International des Études Fascistes» (per approfondire, si legga il libro di Barnes curato da Luca Gallesi, Io amo l’Italia. Memorie di un giornalista inglese e fascista, Oaks, 2022). Mr. Rowse, invece, è Alfred Leslie Rowse: laburista, simpatizzante comunista, prof alla London School of Economics, che scriverà, negli anni, importanti biografie di Shakespeare, Christopher Marlowe, Jonathan Swift. Rispetto a costoro, Eliot sostiene che «fascismo e comunismo mi paiono totalmente sterili. Un’idea rivoluzionaria è un’idea che richiede una riorganizzazione del pensiero; fascismo o comunismo sono oggi l’idea più naturale per l’uomo privo di pensiero». Entrambi i pensieri politici, a suo dire, «mescolano la scienza con il sentimento», sono degni prodotti dell’Ottocento, rispondono perfettamente ai vaghi, immaturi, famelici bisogni del popolo. Al contrario del capitalismo, una autentica novità in quanto «creazione di un potere economico o finanziario distinto dal potere politico e in un certo senso meno responsabile», fascismo e comunismo, «dottrine apparentemente anticapitalistiche», tendono «a concentrare tutto il potere in mani politiche». È, insomma, la divinizzazione dello Stato e del suo dittatore dopo il crollo delle monarchie classiche. La Rivoluzione russa, tuttavia, è «una rivoluzione francese in ritardo di centocinquant’anni», mentre il fascismo «mi sembra piuttosto rappresentare la visione napoleonica». Entrambe le dottrine incarnano «un’idea moderna, convenzionale e familiare: la dottrina del successo... Nel successo di un uomo come Mussolini (un uomo del popolo) un’intera nazione può provare una sorta di auto-adulazione; mentre il popolo russo si è divinizzato in Lenin. Sia l’Italia che la Russia mi sembrano soffrire di bonapartismo». Perfino la differenza tra Nazionalismo fascista e Internazionalismo comunista è, al fondo, iniqua: «Il primo esalta un particolare gruppo di uomini, il secondo (in teoria) l’umanità intera; e nessuna di tali divinità mi pare particolarmente degna di essere adorata. Il saggio presterà il dovuto rispetto a entrambe, il fanatico a una soltanto». Alla resa dei conti, per la glaciale ironia eliotiana la borghesia, «timida nel pensiero e rivoluzionaria nell’azione», è la vera innovatrice: la «biposto», scrive il poeta, è «più rivoluzionaria» della Nuova politica economica di Lenin e della battaglia del grano di Mussolini.
Due anni dopo, in un saggio intitolato Riflessioni su Lambeth, Eliot profetizza il futuro prossimo del pianeta, «che si dividerà sempre più nettamente in cristiani e non cristiani», incoraggiando l’azione della Chiesa. Pare parli di noi. «Il mondo sta tentando l’esperimento della formazione di una mentalità civile, ma non cristiana. L’esperimento fallirà, ma dobbiamo essere molto pazienti e attendere il suo collasso, e intanto recuperare il tempo perduto affinché la fede possa conservarsi viva nelle età buie davanti a noi, per rinnovare e ricostruire la civiltà e salvare il mondo dal suicidio». Se il concetto vi pare ostico, ancoratevi ai versi di Eliot: «Dov’è la Vita che abbiamo perduto vivendo?/ Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo?/ Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?». Il senso non cambia. La poesia non è per i tiepidi, impone prese di campo perfino morali. Compassato fino al distacco, riservato fino all’elitismo, contraddittorio, a tratti crudele, Eliot viveva nel fuoco. Tutto è sacro, tutto arde. Non permettiamo all’empietà di imputridirci il cervello.