Corriere della Sera, 2 gennaio 2024
Keynes, il primo influencer
Letti un secolo dopo, gli articoli di John Maynard Keynes scritti per il «Corriere della Sera» tra il 1922 e il 1925 suscitano molteplici considerazioni e anche emozioni. Vorrei accennare qui ad alcuni aspetti che più mi hanno colpito, specialmente in relazione all’epoca in cui viviamo.
Questi scritti sono corrispondenze di Keynes dalla Conferenza di Genova, svoltasi nell’aprile-maggio 1922 allo scopo di esaminare i mezzi più adatti alla ricostruzione economica del continente europeo dopo la Prima guerra mondiale. Keynes non partecipava alla conferenza come membro ufficiale della delegazione britannica. Lo aveva fatto, in qualità di consigliere economico del governo, in occasione della Conferenza di Pace di Parigi del 1919, che aveva poi abbandonato in dissenso con le decisioni sulle pesanti riparazioni imposte alla Germania, come argomentò con forza in The Economic Consequences of the Peace.
Quelle decisioni, come è noto, furono una delle cause fondamentali del revanscismo tedesco, dell’avvento di Hitler e della Seconda guerra mondiale. L’obiettivo di scongiurare il ripetersi di una simile tragica catena di eventi ispirò l’impegno delle potenze vincitrici e della comunità internazionale nel dare vita nel 1945 a un nuovo ordine internazionale con la creazione delle Nazioni Unite, del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Uno dei protagonisti principali della Conferenza di Bretton Woods, che disegnò il Fondo e la Banca, fu nuovamente Keynes. Come nel 1919 a Parigi, le sue idee furono considerate troppo visionarie. Vi si opposero in particolare gli Stati Uniti, che vollero mantenere la supremazia del dollaro. Alcuni decenni più tardi, questo si dimostrò un fattore di instabilità del sistema. Da economista straordinariamente lucido, Keynes si rivelava a volte troppo lungimirante per i suoi contemporanei (…). Oggi, negli anni Venti del XXI Secolo, percepiamo un affievolirsi della seconda globalizzazione (quella che proruppe dagli anni di Margaret Thatcher e Ronald Reagan in poi) che ricorda in qualche modo l’infrangersi della precedente globalizzazione sugli scogli della Prima guerra mondiale. Come un secolo fa, il mondo è alla ricerca di nuove forme di governance internazionale. Le Nazioni Unite sono onnicomprensive ma la loro efficacia è fortemente limitata dal diritto di veto dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.
Strutture informali sorte successivamente e composte da gruppi di Paesi aventi il comune intento di affrontare pragmaticamente le sfide emergenti – come il G20 ha fatto con la crisi finanziaria globale, la pandemia, il cambiamento climatico – perdono di efficacia al verificarsi di forti tensioni tra i partecipanti, come è avvenuto negli ultimi due anni a seguito dell’aggressione russa all’Ucraina e della crescente rivalità strategica tra gli Stati Uniti e la Cina.
Perfino l’Unione Europea, a oggi la realizzazione più avanzata di integrazione regionale o, se vogliamo, di «globalizzazione» su scala continentale con una governance per certi aspetti unitaria, che senza sosta è andata estendendosi e dotandosi di maggiori poteri, incontra ora qua e là lo zoccolo duro di aspetti delle sovranità nazionali ai quali gli Stati membri non sono disposti a rinunciare. (…)
Al di là del caso europeo, il mondo si trova oggi ad avere altrettanto bisogno di un sistema di governance globale quanto ne aveva all’indomani della Prima e poi della Seconda guerra mondiale. Anzi, più bisogno ancora, perché oltre all’esigenza «permanente» di evitare nuovi conflitti mondiali, oggi è chiaro che senza un governo efficace di alcuni essenziali «beni pubblici globali» – come la salute pubblica, la lotta al cambiamento climatico, il governo delle migrazioni ed altri – il mondo imploderà. (…)
Sovranità e Nazione
Sovranità. È proprio questo concetto, che porta in sé l’ambiguità dei sogni e la realtà sovente brutale, il filo conduttore che corre tra gli anni Venti del Novecento e i nostri anni Venti. (…)
In questi ultimi anni, l’attaccamento alla sovranità si è diffuso ampiamente, divenendo «sovranismo», quasi a fare da contrafforte al pensiero e alle azioni diretti ad una maggiore integrazione o condivisione di aspetti della sovranità. E i Paesi, quasi ad intensificarne i caratteri identitari e reciprocamente distintivi, vengono più spesso chiamati puntigliosamente «Nazioni». Il «nazionalismo», che ne consegue sul piano logico ed emotivo, saprà questa volta trattenersi dal tracimare, come tante volte è avvenuto nella Storia dei popoli, in un senso di superiorità della propria Nazione, di giustificazione morale – se non addirittura di imperativo morale – a sopraffare altre Nazioni? Nel 1995 il presidente della Repubblica francese François Mitterrand, nato durante la Prima guerra mondiale e combattente nella Seconda, concluse il suo ultimo discorso al Parlamento Europeo esclamando: «Il nazionalismo è la guerra».
Economisti, giornali, decisioni politiche: le affinità tra Keynes ed Einaudi
Quando Keynes esercitava un’importante influenza sulle Conferenze di Parigi (1919) o di Genova (1922), era certo un’economista noto sul piano internazionale, ma non aveva ancora pubblicato né il Treatise on Money (1930) né la General Theory on Employment, Interest and Money (1936) che avrebbero fatto di lui un grande innovatore nel pensiero economico e una delle figure più influenti del XX Secolo a livello mondiale in campo non soltanto economico, ma anche sociale e politico. Come si spiega, allora, che l’economista britannico avesse già una considerevole autorevolezza a Parigi? E ancor di più a Genova, dove non era neppure membro della delegazione del proprio Paese?
La risposta è tutta in questo volume: i suoi articoli. Sì, Keynes era convinto di quanto fosse necessario per un economista scrivere sui giornali per divulgare e promuovere le proprie idee, sia presso il grande pubblico che negli ambienti degli stessi policy-makers. (…) Il nostro autore non solo si buttava con passione nelle discussioni giornalistiche, ma lo faceva, potremmo dire, con metodo industriale e con l’imprenditorialità da grande «influencer» dei giorni nostri. Nella sua Introduzione, Andrea Moroni spiega la meticolosa programmazione delle uscite non solo in inglese ma anche in francese, tedesco, italiano e spagnolo, affinché l’opinione pubblica e gli esperti di tutte le principali comunità linguistiche occidentali fossero raggiunti dal suo messaggio. (…)
Naturalmente, il giornale italiano prescelto da Keynes fu il «Corriere della Sera». Così, sia per la stima reciproca e i rapporti diretti che esistevano tra Keynes ed Einaudi, sia per la scelta del «Corriere» fatta da Keynes, venne a crearsi un corpus di pensiero, a volte dialettico, tra i due economisti.(…)
Del resto, vi era tra Keynes ed Einaudi una sorprendente affinità nell’intendere e praticare l’attività pubblicistica da parte dell’economista. L’economista di Cambridge, abbiamo visto sopra, si affidava al giornalismo multinazionale per influenzare il governo britannico e gli altri governi. L’economista di Torino e della Bocconi era convinto sia della funzione educativa della stampa d’informazione, sia del fatto che la formazione di un’opinione pubblica favorevole a una tesi influenza le stesse autorità, rendendole più disponibili ad accogliere quella tesi. (…) Sia Keynes che Einaudi, in un certo senso, ritenevano loro dovere non solo educare in campo economico i loro studenti e l’opinione pubblica, ma anche costituire una sfida – oggi si direbbe un benchmark – per le autorità di governo. I grandi giornali hanno perciò un ruolo molto importante quasi di «servizio pubblico» per spingere al «buon governo». (…)
Il Regno Unito dopo Keynes e l’ordine internazionale: leadership intellettuale e ripiegamento su di sé
Questo volume mostra in modo esemplare, attraverso l’attivismo pubblicistico e la capacità di persuasione politica di John M. Keynes, il ruolo di primo piano che, anche grazie a lui, il Regno Unito ha avuto in quella fase storica, ma anche più in generale, nel contribuire a disegnare l’ordine internazionale, in particolare in campo economico e finanziario.
Ai tempi di Keynes fu Lloyd George a lanciare la Conferenza di Genova (1922) per la ricostruzione economica del continente europeo e Keynes in un certo senso la «guidò» dall’esterno. Bretton Woods (1944) vide il Regno Unito e Keynes in posizione di grande spicco e con un programma ambizioso, benché non poco contrastato dagli Stati Uniti.
Il primo manifesto post-bellico per l’unificazione europea è racchiuso nel breve discorso pronunciato da Winston Churchill all’Università di Zurigo nel 1946. Eppure il Regno Unito sarebbe divenuto membro delle Comunità Europee solo nel 1973.
Il pilastro forse più importante dell’odierna Unione Europea, il Mercato Unico nato nel 1993, fu concepito intellettualmente e spinto politicamente, durante la presidenza di Jacques Delors alla Commissione, dal primo ministro britannico Margaret Thatcher e dal commissario britannico al Mercato Unico, Lord Cockfield. (…) Quando il Regno Unito era ancora membro della Ue, fu il suo primo ministro Gordon Brown, nella sua qualità di presidente di turno del G20 nel 2009, a fare di questo organismo il motore della nuova regolamentazione dopo la crisi finanziaria globale e a indirizzare un grande sforzo comune per contrastarne gli effetti recessivi.
Dopo l’uscita dalla Ue, approvata con referendum nel 2016, il governo del Regno Unito ha più volte dichiarato che, libero dal «peso» della Ue, il Paese avrebbe preso una posizione di guida in una nuova globalizzazione, traendone grande giovamento in termini di crescita economica e di peso politico nel mondo. Senza sottovalutare i molti punti di forza che il Regno Unito conserva, non si può dire che quella profezia si sia avverata.
A volte penso a che cosa l’Unione Europea potrebbe essere oggi, se il Regno Unito non avesse subito il lunghissimo travaglio che l’ha portato a lasciare la Ue, se fosse ancora un fattore di spinta per le riforme strutturali e per la competitività di tutta l’Unione, come era stato per anni e se, magari, avesse a disposizione una mente coraggiosa e persuasiva come fu Keynes.