il Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2024
Le annate magiche della musica
Sarà suggestione. O un oscuro meccanismo cabalistico, la Smorfia, la numerologia, la precessione degli equinozi. Però la Regola del Quattro ammette poche eccezioni. In vista del giro di boa di ogni metà decennio la musica cambia. Genera un’onda anomala, si inabissa e riemerge con un suono inusitato, uno schiaffo d’energia.
Prendete il 1954, una vita fa: il primo 45 giri di Elvis, (That’s All Right Mama) e il Rock Around the Clock di Bill Haley – senza dimenticare il proto-Chuck Berry – fissano il canone del r’n’r. Fu rivoluzione, oggi è museo.
Slittiamo in avanti di una decade: il 1964 è l’anno in cui in cui il derby tra Beatles e Stones (con i Kinks a bordo campo) si fa rovente. I primi vanno a mille con A Hard Day’s Night e For Sale, gli altri esordiscono su album il 17 aprile. Alla testa della “British Invasion”, le due band conquistano l’America per via mediatica nell’Ed Sullivan Show, mentre l’enfant du pays Dylan veste gli urticanti panni del profeta folk con due 33 giri, The Times They Are a-Changin’ e Another Side. Sessant’anni dopo sono (quasi) tutti ancora lì, ottuagenari costretti a recitare la loro eterna parte nella liturgia reducista per rassicurarci sull’immortalità dell’anima rock. Senza Paul, Mick, Keith e Bob in pista dovremmo sancire la fine di una stagione in realtà tramontata da un pezzo. Perché i primi segni dello stress intensivo nel campo della musica ribelle si notano già all’indomani del formidabile 1973.
Certo, dire che il ‘74 fosse un periodo di flessione creativa sarebbe una bestemmia. Peschiamo tra le uscite di mezzo secolo fa: i Queen pubblicavano ben due Lp (II e Sheer Heart Attack), David Bowie spiazzava con Diamond Dogs, i soliti Stones macinavano riff in It’s Only Rock’n’Roll, Brian Eno (fuoriuscito dai Roxy Music) si metteva in proprio con l’astrale Here Come the Warm Jets, gli Steely Dan fondevano pop cantabile e light jazz su Pretzel Logic, Dylan tornava a fare sul serio con Planet Waves, Neil Young contemplava il mare tra droghe e depressione in On the Beach, Joni Mitchell tesseva trame d’incanto per Court and Spark. Tra glitter, hard e rock-blues notavi i Kiss, gli Aerosmith, i Lynyrd Skynyrd, Eric Clapton. Lo Zappa genio di Apostophe. I Genesis allestivano il concept di The Lamb lies down on Broadway, i tedeschi Kraftwerk colavano asfalto sull’Autobahn elettronica. Del cruciale ‘74 impressiona pure il panorama italiano: il coraggio di Battisti (più Mogol) per un capolavoro come Anima Latina, le sperimentazioni del Battiato di Clic, le metafore rabbiose di Edoardo Bennato in Buoni e Cattivi, l’ispirato Francesco De Gregori del disco omonimo, e De André (Canzoni), Gaber (Anche per oggi non si vola), il Venditti di Quando verrà Natale, il secondo Zero di Invenzioni, il Baglioni di E tu. A cornice, la messe d’abbondanza di prog, jazz-rock, folk. Aktuala, Area, Biglietto per l’inferno, Osanna, Perigeo, Nuova Compagnia di Canto Popolare, Pfm, Claudio Rocchi. Come è potuto esaurirsi questo filone d’oro? Semplice: la Storia ha fatto un carpiato per uscire dai tormentosi Settanta infilandosi nel riflusso godereccio della dance.
Eppure, della miglior musica tricolore targata 1984, vanno piazzati su altari profani Crêuza de mä di Faber, il Puzzle della Nannini, Va bene, va bene così firmato Vasco, il Musicante ritratto da Pino Daniele, gli Orizzonti perduti vagheggiati da Battiato, la Donna cannone favoleggiata da De Gregori. Nel mondo impera il mainstream ad uso radiofonico. Springsteen conquista gli stadi gridando Born in the Usa, Prince i cinema grazie a Purple Rain, Tina Turner rinasce su Private Dancer, gli U2 mutano una prima pelle su An Unforgettable Fire, i Simple Minds sono araldi dell’orgoglio scozzese con Sparkle in the Rain, gli Smiths reinventano la “englishness” di provincia nel primo album. Non basta? Ecco l’elettropop rivendicativo dei Bronski Beat, i salti dei Van Halen, le stilettate dei Metallica. L’avvento di Madonna.
Inoltrandoci altri dieci passi più in là, dentro il 1994, cosa salvare? L’unica prova, sconvolgente, di Jeff Buckley (Grace), la folgorante entrata in scena degli Oasis (Definitely Maybe) per il primo scontro nella “Battle of the bands” contro i Blur. Più l’allucinato MTV Unplugged dei Nirvana. Lì finisce, con il grunge, l’età aurea del rock, che da allora diviene mera emulazione del passato: si instaura quella decadente di rap e trap.
Il 2024? Un minestrone per Spotify. Gli album hanno ormai perso senso progettuale, i “singoli” sono pezzi sparati a casaccio nell’iperspazio. Chi è all’orizzonte con opere nuove? Green Day subito, poi Coldplay, Kaiser Chiefs, Libertines, Kasabian, Cure, Liam Gallagher & John Squire, Korn, Courtney Love, Dua Lipa, Billie Eilish, un re-impacchettamento di Taylor Swift, Michael Stipe senza i R.E.M., Rihanna, Pearl Jam, Kali Uchis, Chromeo, magari i Maneskin. Mettiamoci il cuore in pace: non avremo altri switch epocali, la musica non batterà di nuovo quattro. Sarà l’anno dei successi fake. Con l’intelligenza artificiale superstar.