il Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2024
Verdini, la montagna dei record
Denis Verdini è l’ideale saccone da palestra su cui si esercitano tutti i ritrattisti che sgocciolano inchiostro sui politici italiani. Le sue gesta rimbombano dentro ai cassonetti di spazzatura che dalla tavola del potere transitano a quella dei servizi igienici, giù in fondo alle scale, destino e anche consuntivo del suo lungo e ammirato regno.
Verdini è la montagna dei record: undici inchieste a incoronare la vita, sei processi, tre condanne. È il Malagrotta della compagnia, per dir così. La discarica più grande d’Europa. Il vasto macellaio dei Palazzi. Il bullo che fa ridere i fessi mentre gli soffia i valori bollati e quelli morali. Il bancarottiere che fa piangere le vittime del Credito Cooperativo Fiorentino, mandato in malora per 100 milioni di euro. L’imbroglione simpatico a tutti i giornalisti tranne a quelli del Giornale della Toscana truffati e mazziati, visto che i fondi per l’editoria finivano direttamente sui suoi conti. Il farabutto della commedia all’italiana che dice: “I miei processi? Una montagna di cazzate”. Il faccendiere della perpetua tragedia politica intesa come “sangue e merda” secondo la pertinente ammissione di Rino Formica. L’amorale per definizione e per vocazione. Il tizio che ti ammazza masticando trippa. L’orco che sputa per terra tra i propri scarpini di camoscio. Il capotavola che rutta. Il diavolaccio che per far sognare i bamboccioni viaggia su Mercedes Maybach da 200 mila euro. E guarda l’ora segnata dal suo Patek Philippe Nautilus in oro rosa da 150 mila euro.
Non bastandogli il tetto di Rebibbia, respirato per un mesetto nel 2020, Denis Verdini ha sfondato, quello di cristallo della famiglia. E con un certo orgoglio, proprio in queste ore, ha mostrato in pubblico il capolavoro del figlio Tommaso, allevato a sua immagine, birbante in nuce con Suv e fidanzate fuoriserie, accusato di truffa già alla bella età di 34 anni. Innocente fino a sentenza, ci mancherebbe. Purtroppo con arresti domiciliari comminati al volo, buon sangue non mente, in qualità di massimo indagato dello scandalo Anas, nonché “rampollo della Firenze bene”, come lo descrivono le cronache, che si è messo nella scia del “padre per male”. Traendone lo spunto di saltare del tutto la scocciatura della politica per puntare direttamente sul malloppo degli affari. Prima con una catena di ristoranti. Poi con la sua Inver, società di consulenza, che secondo i giudici “facilitava una serie di ditte a partecipare e vincere appalti Anas”, grazie “all’accesso a informazioni riservate”, che la procura di Roma quantifica in asfalti per 500 milioni di euro. Non proprio spiccioli. Inaugurando la domanda dell’anno bisestile 2024: “Da dove arrivavano le informazioni riservate”? Dalle cene col babbo che succhiava lumache? O dagli aperitivi con il santissimo ministro dei Trasporti, il fervente cattolico Matteo Salvini, fidanzato della sorella Francesca, dunque cognato in pectore, che l’Anas ce l’ha nel portafoglio dei diritti e dei doveri insieme con il rosario da comizio?
I giudici al momento non dicono. E meno di tutti dice Matteo che in Aula di Montecitorio non ci ha posato neppure l’ombra, è partito direttamente e prudentemente con gli sci ai piedi, nonostante le opposizioni lo abbiamo chiamato così forte da riempire tutti i telegiornali e le vallate delle sue vacanze invernali. Con eco a rischio acufene.
L’epopea di Denis, politicamente parlando, va da Macchiavelli a Jack lo Squartatore. Nasce nel triste paesone di Fivizzano, in Lunigiana, anno 1951, babbo alpino, disciplina intesa per voltarla abilmente nel suo contrario. Giovinezza a Campi Bisenzio e Firenze, una macelleria per cominciare e un po’ di libri masticati a Scienze politiche sotto il distratto magistero di Giovanni Spadolini, il più vanitoso dei senatori, subito sostituito da tutti i carnivori di passaggio, piduisti, massoni, faccendieri, cominciando dal maggiore, Silvio Berlusconi, che lo riconosce e lo arruola al colpo d’occhio e qualche anno dopo dal suo imitatore a gettone petrolifero, Matteo Renzi, pescato a inizio carriera e subito portato a Arcore: “Silvio, lo devi conoscere, un comunista più anticomunista di lui non s’è mai visto”.
L’elenco dei suoi estimatori, soci e amici è da mattinale di Questura: Marcello Dell’Utri, Cesare Previti, Giancarlo Galan. Claudio Scajola, Luigi Bisignani, Flavio Carboni. Mancano giusto Barbablù e Billy The Kid, espatriati per tempo dalla sua doppia villa a Pian dei Giullari, con ulivi, pratoni, piscina, che negli anni degli arresti domiciliari, è diventata il carcere sociale di Denis.
Con la banda compra superattici a Roma, palazzi a Firenze e graziosi chalet in Svizzera. Traffica con Giuseppe Mussari, quello del Monte dei Paschi di Siena. Edita il Foglio di Giuliano Ferrara senza badare a perdite. Progetta campi eolici con Dell’Utri e ricostruzioni nella pacchia del terremoto a L’Aquila con la Cricca, se la spassa con Guido Bertolaso. Protegge i pasticci editoriali di Daniela Santanchè e pettina le intraprese turistiche del suo amico Flavio Briatore.
Tra un affare e l’altro, mentre Silvio è distratto dalle festicciole con bimbe a tassametro, diventa “Coordinatore del Popolo delle Libertà”, l’idraulico della destra. Mentre a sinistra si inventa il Patto del Nazareno, un piccolo accordo di sottopotere che i nostri migliori politologi salutano come “un capolavoro di astuzia”. E che rapidamente si sgonfia. Da leone ferito, Denis miagolerà in Aula, anno 2017: “L’antipolitica ha gonfiato le vele, Berlusconi è stato espulso infaustamente da questo Senato, il Nazareno è fallito, la riforma costituzionale è stata bocciata”. Tutto vero. L’anagrafe si è portata via il senno di Silvio, l’impazienza Renzi, i carabinieri gli amici.
L’anno dopo resta senza seggio e senza immunità. Le condanne vanno all’incasso.
Esattamente tre anni fa, una processione di politici santificò il suo Natale a Rebibbia: Renzi, Salvini, Ignazio La Russa, Santanchè, Antonio Angelucci, Luca Lotti, Renata Polverini tutti a portagli incenso e birra. Persino il piccolo Maurizio Lupi, ammesso a far parte della combriccola, grazie allo scandalo di un Rolex regalato al figlio che faceva curriculum. L’Italia garantista si commosse per la vista in carcere. E nessun Del Mastro si accorse del misfatto.