la Repubblica, 2 gennaio 2024
Quando c’era ancora la fantascienza
Avventure di fantascienza e Tutti i racconti e i romanzi brevi di H.G. Wells. Due volumi editi da Mursia per complessive oltre duemiladuecento pagine. A cura di Fernando Ferrara e con la collaborazione di svariati preziosi traduttori. Edizione rilegata in un elegante verde scuro con costine in rosso e nero. Custodie cartonate che riproducono dettagli di opere del pittore vittoriano sir Philip William Burne-Jones e del più moderno Graham Sutherland. Mi porto appresso questi due volumi da oltre mezzo secolo. Hanno attraversato indenni innumerevoli traslochi, cambi di città, eventi lieti e drammatici, l’evoluzione costante del “lessico famigliare”, la crescita, il radicamento, l’invecchiamento, speranze, delusioni, affetti perduti e ritrovati, il durevole e l’effimero di una vita.
Le pagine sono un po’ ingiallite, a tratti affiorano annotazioni a margine, sottolineature, c’è persino traccia di qualche orecchietta segnapagina. Non c’è indicazione di prezzo, e non poteva esserci. Perché quei due volumi preziosi erano un regalo. Il regalo del Natale 1969. Per qualche misterioso motivo, H.G. Wells, quell’anno, “si portava” nel giro degli adolescenti tarantini ai quali appartenevo. Era il primo passo per quella che sarebbe diventata una sorta di love story generazionale per la fantascienza.
Si era in pieno post-Sessantotto, certo, e, da noi al Sud, la declinazione dello spirito ribelle assumeva venature decisamente operaiste. E i borghesi della città dell’acciaio guardavano con notevole apprensione alla crescita del movimento operaio: signora mia, se i figli di questi finiscono tutti dottori, chi zapperà più la terra? Ma a quasi quattordici anni, quanti ne avevo allora, si era troppo piccoli per incamminarsi lungo il sentiero della militanza. La grande sbornia degli anni Settanta era dietro l’angolo, ma per il momento le priorità erano altre. Quei due volumi li imposi ai miei, entrambi professori. Forse avrebbero preferito qualcosa di più classico a questo scrittore che delirava di mondi impossibili, invasioni marziane, uomini invisibili, isole di scienziati pazzi che anticipavano la rivoluzione del genoma, vampiri reincarnati, intelligenze meccaniche (sì, c’è anche questo, in Wells) che si accreditavano come temibili antagoniste dell’uomo. L’ignoto e l’indefinito, insomma, che affascinavano l’adolescente, il viaggio spaziale da sognare, l’America, le stelle e il rock: nient’altro, col senno di poi, che le inevitabili epifanie dei furori giovanili.
Insieme a Wells, un altro dono di quella stagione irripetibile fu il vinile (ma allora dicevamo: long playing, o più semplicemente 33 giri) di Lucio Battisti. Anche questa è una reliquia, forse persino più vitale del Wells d’annata, che mi porto appresso da allora. Mio padre, per dire, ascoltava le canzoni di una volta eseguite da Luciano Virgili, e storceva il naso davanti al R&B di Un’avventura. Non è che i miei fossero particolarmente tradizionalisti, ma Battisti&Mogol erano troppo “avanti”: ci avevano traghettati nel futuro. Esattamente come Wells e la fantascienza.
Se devo riflettere su uno di quei momenti cruciali nei quali una personalità in formazione cambia, matura, fa una scelta, beh, non posso che riandare con la mente a quel Natale e ai suoi felici feticci. Ma insomma, allora del Natale a te interessavano soltanto i regali? E magari le abbuffate, le riunioni con parenti e amici, la festa, insomma. E come la mettiamo con il coté mistico, il raccoglimento, la bontà, i propositi di migliorare, il Bambinello? Come la mettiamo, in altri termini, con il sacro? L’orgia pubblicitaria che accompagna ogni Natale, gli spot con la famiglia tradizionale e quelli dedicati alle famiglie più aggiornate (per intenderci: donne guerriere e maschi imbranati) possono risultare fastidiosi, così come i panettoni venduti al prezzo del caviale del Volga.
Ma si resta perplessi anche di fronte alla retorica del Natale di un altro tempo, quello che sarebbe stato il Natale spirituale, contrapposto all’attuale deriva consumistica. Mancherebbe, in definitiva, il Natale di una volta. Durante tutta la giornata del 24 dicembre, i bimbi del consigliere sanitario Stahlbaum, aspettano trepidanti la consegna dei regali, ammucchiati sotto l’albero. Sanno che a pensare ai doni sono i genitori, ma sanno anche che le meravigliose creazioni meccaniche che l’orologiaio Drosselmeier ha ideato per loro sono state benedette dal santo sguardo di Gesù Bambino. Siamo nello Schiaccianoci di Hoffman (1819), e, al netto del panciuto Babbo Natale made in Coca Cola, il Natale dei piccoli tedeschi di due secoli fa non è poi tanto dissimile dal nostro: un felice miscuglio di spirito religioso e gioiosa celebrazione ludica, l’unione perfetta del sacro e del profano. Un’unione radicata nel concetto stesso di “festa”: il luogo simbolico del passaggio di stato, del rinnovamento, della nascita che è sempre ri-nascita. A vietare il Natale perché in odor di paganesimo, del resto, furono, nel decennio governativo, i puritani di Cromwell.
Quella sera del ’69, dunque, sfogliavo con ansiosa concentrazione e un forte batticuore le pagine di Wells sotto lo sguardo in fondo intenerito dei miei. Mentre nel salottino buono di casa, accucciato ai piedi del tradizionale alberello, il cane Bamba annusava impaziente i profumi dell’imminente cenone, e dalla fonovaligia Lesa partivano le note di Balla Linda.