il Giornale, 31 dicembre 2023
L’euro ha 25 anni, non tutti portati bene
Domani l’euro, la moneta unica dei 20 Paesi Ue (tra cui l’Italia) che vi hanno aderito, compirà 25 anni. In realtà, la ricorrenza sarebbe oggi poiché il 31 dicembre 1998 venne fissato il tasso di cambio fisso a 1.936,27 lire per un euro e il giorno successivo la nuova valuta cominciò a circolare nelle transazioni immateriali. La circolazione fisica iniziò tre anni dopo, il primo gennaio 2002.
L’euro, nonostante tutto, è un po’ lo specchio dell’Italia passata, presente e futura. Il nostro Paese vi aderì tra l’entusiasmo dei governi dell’Ulivo (auspici l’allora premier Romano Prodi, defenestrato alla vigilia da Massimo D’Alema, e il ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi), ma con lo scetticismo del governatore di Bankitalia, Antonio Fazio, che fino all’ultimo cercò di far rinsavire l’esecutivo. «La stabilità della moneta avrebbe dovuto sostenere la crescita dell’economia e, invece, l’economia ha dovuto sostenere la moneta», dichiarò l’ex numero uno di Via Nazionale in una recente intervista ad Avvenire. L’Italia, infatti, vi fu ammessa con riserva assieme al Belgio per via del debito già allora superiore al 100% del Pil e soprattutto dopo la cura da cavallo dell’euro-tassa del 1996 varata per abbassare il deficit.
Ieri i vertici delle principali istituzioni europee, dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, alla numero uno della Bce, Christine Lagarde, hanno cofirmato un messaggio celebrativo. «L’euro ha semplificato la vita dei cittadini europei, ci ha dato stabilità ed emettere la seconda valuta più importante al mondo rafforza la nostra sovranità», si legge nel testo. Tutto vero: l’euro non ci dà problemi se viaggiamo a Parigi, Madrid o Berlino, è più resistente di una valuta nazionale alle temperie dei mercati e rappresenta un’Europa ancora divisa sul piano politico ma unita su quello finanziario.
Come diceva l’insigne economista allievo di Milton Friedman ed ex ministro Antonio Martino, «adottare una decisione importante senza valutare la possibilità che non abbia successo è come chiudersi in una stanza buttando la chiave». La nascita dell’euro, infatti, è stata caratterizzata da un eccesso di ottimismo mutatosi improvvisamente in panico all’insorgere delle prime crisi. La prima fu quella greca del 2009 con il deficit e il debito di Atene esplosi a livelli insostenibili, la seconda fu quella dei debiti sovrani che vide purtroppo coinvolta anche l’Italia a colpi di spread tra il nostro Btp e il Bund decennale. Quel differenziale di 574 punti, mai visto dall’uscita del «serpentone monetario» del 1992, aveva terrorizzato tutta Europa. Per difendere l’euro la cura fu l’austerità.
«Ogni volta abbiamo reagito nel modo giusto», hanno ricordato i leader delle istituzioni europee nel messaggio di ieri. Ma questa affermazione è parzialmente vera. Senza il whatever it takes pronunciato dall’ex presidente della Bce, Mario Draghi, il 26 luglio 2012, anche l’euro sarebbe solo un vago ricordo e si sarebbe ritornati alle monete nazionali. È stato proprio il predecessore di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi a inventare il quantitative easing, cioè l’immissione di liquidità nel sistema attraverso l’acquisto di titoli di Stato dei Paesi dell’Eurozona, garantendo la sopravvivenza della moneta stessa. E poi disegnò l’Omt, il bazooka finora mai utilizzato per salvare i Paesi in difficoltà.
L’Unione europea, invece, ha inventato l’Efsf che oggi si chiama Mes e la cui riforma è stata bocciata dal nostro Parlamento. È un sostituto dell’intervento dell’Fmi in caso di crisi, trasformato anche in salva-banche. A chi gli chiede una mano impone una drastica riduzione della spesa pubblica e (ove mai fosse approvato nell’attuale versione) anche un più facile ripudio del debito pubblico. Il principio è il medesimo che stava provocando il collasso dell’euro: se un Paese ha dei problemi, i suoi cittadini devono farsene carico in qualche modo e non il resto dell’Europa.
È il «peccato originale» dell’euro e della Bce, la banca centrale che lo emette. I principi fondativi sono di stampo germanico: il vero obiettivo è la tutela dall’inflazione, non la crescita economica. È il motivo per cui i tassi attuali restano elevati nonostante il ritmo di crescita dei prezzi si sia attenuato. Lo sviluppo del Pil è un fatto secondario finché sarà Berlino a condurre le danze ai piani alti dell’Eurotower.