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 2023  dicembre 31 Domenica calendario

Intervista a Loretta Goggi

Una bambina dentro una scatola magica. È il primo ricordo che Loretta Goggi serba della televisione: erano i primi anni 50, lei era ammalata e suo padre le concesse di dormire nel lettone, dove c’era «la scatola magica: una tv con i grandi manopoloni». Davano il Musichiere e tra gli ospiti spuntò una piccola attrice. «Non rammento il nome, ma ricordo il mio stupore: come era possibile che una bambina stesse dentro una scatola?». Poi fu lei stessa a entrarci: giovanissima, Goggi divenne la baby star degli sceneggiati Rai (uno su tutti, La Freccia Nera) per poi spaziare, crescendo, tra imitazioni – prima donna a farle –, conduzioni – ancora, prima donna a presentare da sola Sanremo –, varietà, canto...
Qual era il suo modello?
«Mina. La vidi in tv sempre quel giorno, malata, dal lettone dei miei. Al Musichiere la chiamavano Baby Gate, e cantava: “nessuno, ti giuro, nessuno…”. Mi folgorò. L’ho sempre ammirata anche come donna, perché era emancipata, libera, combatteva per il proprio amore. È un esempio che ha guidato la mia vita».
L’ha mai conosciuta?
«Una volta. Avevo 19 anni e fui invitata, insieme a lei, in un programma del Quartetto Cetra. Quando mi vide, Mina disse (imita la voce, ndr): “Ma tu sei quella della Freccia nera? Ti vedo tutte le sere"».
Doveva essere inusuale saltare la scuola per fare tv. Come la presero gli insegnanti?
«Il patto con papà era: se non vai bene a scuola, niente tv. Quindi prendevo bei voti, ero una secchioncella. Se non ci fosse stato l’obbligo di frequentare, avrei di sicuro fatto il liceo classico... Tuttavia alcuni maestri non la presero bene. Mi dicevano: “venga qua, mostro”, come a dire che ero bravissima a fare tutto, ma tradivano un po’ di stizza».
I suoi genitori, invece?
«Papà è stato felice fintanto che credeva che avrei solo cantato: adorava la musica. Poi, quando passai alla prosa, sofferse un po’perché la famiglia doveva per forza dividersi: si girava per 7-8 mesi, spesso fuori Roma. Mamma è stata il mio punto di riferimento femminile: una donna forte, di carattere, concreta. Mi teneva con i piedi per terra: quando feci Beatrice nella Vita di Dante, mi diceva “Beatrice, fila a fare il letto, tesoro! “».
Com’è stato farsi largo nel mondo tutto maschile delle imitazioni?
«Era un territorio in mano a Noschese. E io venivo dalla prosa, dove facevo sempre ruoli da malata, orfana, moribonda: faticai a essere presa in considerazione. Se ci riuscii fu grazie a Pippo Baudo che mi volle a Canzonissima. “Ma quella è una patata lessa! “, gli disse il direttore di Rai 1 ma lui garantì per me. Così mi diedero la possibilità di fare una parodia con Franco Franchi: io e lui, senza Ciccio Ingrassia. Feci la prima imitazione di Mina. Noschese era ospite e mi apprezzò moltissimo».
Cosa le disse?
«Finita Canzonissima, mi propose un programma insieme. Fu l’unico uomo a condividere con serenità la conduzione, senza un briciolo di competizione e di invidia. Io ero giovane, imitavo a orecchio, lui mi insegnò tantissimo».
Ha detto: “Carrà è un’icona, io sono stata solo brava”. Perché un giudizio così duro?
«Perché è così. Carrà aveva una presa sul pubblico che andava al di là del suo talento, non a caso ha sfondato anche in Inghilterra, tra quegli snob degli inglesi... Io sono stata una buona professionista e, forse, una delle più complete. Ma essere bravi a volte non basta».
Vi frequentavate?
«Ci siamo incrociate, sempre di sfuggita. Ogni volta lei molto carina mi ripeteva: “Come fai a fare anche teatro? Io non riuscirei”. Abbiamo legato un po’di più quando andai ospite ad A raccontare comincia tu: iniziammo a scriverci. Le dissi: “Io e te siamo due persone diverse, ma con la stessa anima”. Di lei ammiravo la tenacia e la sua prorompente vitalità. Io venivo da una scuola diversa, più inglese, e iniziai a ballare molto tardi, a 21 anni, per Canzonissima. Durante le prove mi chiamavano pinky l’elefantino volante...».
Lasciò la Rai dicendo che c’era un clima maschilista. A Mediaset andò meglio?
«In Rai se arrivava un ospite grosso, era sempre l’uomo a intervistarlo. A Mediaset andò meglio, ma ci arrivai “armata": mi portai la mia squadra ossia Enzo Trapani per la regia, Antonio Ricci per i testi, Diego Dalla Palma per il trucco, mio marito Gianni come coreografo e primo ballerino».
Conduttrice da sola di Sanremo 1986: come ci riuscì?
«Di nuovo, grazie a Baudo. Dovevamo condurlo insieme poi, all’ultimo, diede forfait perché voleva sposare Katia. Disse: “Goggi può farcela benissimo da sola”. Condussi senza gobbo, senza cartelline, dormivo 4 ore a notte: quei tre giorni pesarono 20 anni di vita! Andò bene, la Rai mi propose anche l’edizione seguente. Rifiutai».
Perché?
«Non faccio mai due volte la stessa cosa, tranne Loretta Goggi il quiz. Ho sempre vissuto il lavoro d’istinto e non ho mai pensato ai soldi. Quando sfondai a Sanremo con Maledetta primavera non feci serate o tournée all’estero perché avevo il fidanzato».
Lei ha lavorato con i più grandi: Corrado, Proietti, Baudo, Noschese. Il più simpatico?
«Quello che ti faceva crepare dalle risate era Proietti. Il più simpatico come compagno di lavoro era Johnny Dorelli. Baudo il più preparato, con lui potevi parlare di tutto. Noschese era un vero gentleman. All’epoca della nostra trasmissione c’era l’austerity e veniva lui a prendermi con l’auto della Rai».
Settant’anni dopo, la tv è diventata meno maschilista?
«Solo apparentemente. Ci sono fuoriclasse come De Filippi e Carlucci con potere decisionale, ma sopravvive una visione “decorativa” della donna: una corsa ad apparire sempre sexy, giovani. Credo che la mia fortuna sia stata non essere una bellezza mozzafiato: mi ha permesso di fare la mia strada, di diventare quella che sono». —